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 2014  novembre 03 Lunedì calendario

Obama arriva alla prova delle elezioni di midterm con un’immagine ormai sbiadita. Contro un solo obiettivo importante centrato in politica interna (la riforma della Sanità) e un discreto successo nel rimettere in sesto l’economia del Paese, è soprattutto il bilancio della politica estera quello che appare più critico per il Presidente degli Stati Uniti

Quale deve essere in una democrazia il rapporto diciamo così di «dipendenza» tra un uomo politico e la maggioranza che lo ha eletto? Fino a che punto è giusto ed opportuno che questa lo condizioni e che egli se ne faccia condizionare? E ancora: l’obbligo per la politica della trasparenza e della legalità, può obbligatoriamente estendersi a tutti gli ambiti decisionali? Oggi, questi interrogativi, vecchi come la storia della democrazia, sono riproposti con forza dal destino politico sospeso sul capo del presidente degli Stati Uniti. Un destino non proprio smagliante visto che tutti gli osservatori sono d’accordo nel prevedere una forte avanzata dei repubblicani alle elezioni di mezzo termine che si terranno domani, e addirittura una probabile loro maggioranza al Congresso.
Contro un solo obiettivo importante centrato in politica interna (la riforma della Sanità) e un discreto successo nel rimettere in sesto l’economia del Paese, è soprattutto il bilancio della politica estera quello che appare più critico per Obama, quello sul quale gli elettori sembrano più intenzionati a sanzionare il presidente. E in effetti è difficile chiudere gli occhi di fronte a quanto è accaduto negli ultimi anni: il virtuale abbandono da parte degli Stati Uniti del loro ruolo di protagonisti assoluti della scena planetaria, la perdita di una parte notevole della loro capacità d’influenza e di leadership negli scenari regionali più critici, la difficoltà evidentissima da parte dell’amministrazione di costruire una qualunque visione complessiva, una strategia di medio-lungo termine, capace di rilanciare un rinnovato impegno globale di quella che ancora all’inizio del secolo sembrava l’unica, incontrastata, superpotenza.
Bene: è forse il caso di osservare, però, che questa ritirata, chiamiamola così, degli Usa dal mondo è stata compiuta da Obama in stretta obbedienza al mandato affidatogli dalla maggioranza dei suoi concittadini. Egli è stato eletto a suo tempo proprio con l’impegno di ridurre il coinvolgimento americano negli affari del pianeta (attribuito ad un errore di Bush): a cominciare dall’abbandono dell’Iraq, con tutte le conseguenze vicine e lontane (anche di immagine) che ha comportato. Era questo ciò che la maggioranza degli elettori voleva, ed è questo ciò che essa ha puntualmente avuto, anche se ora sembra essersi ricreduta. Il che dimostra, per tornare alla questione iniziale, che un uomo politico non deve essere agli ordini dei suoi elettori ed eseguirne pedissequamente i desiderata.
Il mandato elettorale risulta efficace, davvero produttivo di scelte politiche sensate, solo se è un mandato libero, senza vincoli. Per almeno due ottime ragioni: innanzi tutto perché sui singoli problemi concreti la grande maggioranza degli elettori si orienta perlopiù in base a stati d’animo aleatori, frutto molto spesso di impressioni e di emozioni più che di convincimenti o di conoscenze accurate; e altrettanto spesso senza essere in grado di valutare realmente gli effetti derivanti dall’una o dall’altra scelta. La seconda ragione è che altrimenti non potrebbe esservi alcuno spazio vero per la politica e per chi l’esercita in modo proprio: cioè con la capacità di combinare creativamente (cioè autonomamente) i dati della realtà, di vedere ciò che gli altri non vedono, di assumersi il rischio anche di contrastare l’opinione della maggioranza prendendo decisioni impopolari. Cioè di fare tutte le cose che da sempre caratterizzano la personalità politica di valore.
Dunque Obama si è comportato da politico autentico quando, per esempio, smentendo la volontà di legalità e di trasparenza dei suoi elettori e le sue stesse promesse, non ha chiuso il carcere di Guantanamo. Ma ha sbagliato quando, invece, non se l’è sentita di smentire la spinta isolazionistica di quei medesimi elettori, rifiutandosi di capire che forse quella spinta non andava assecondata.