La Stampa, 3 novembre 2014
Dossier acciaio: in Italia dovremmo smetterla di ragionare sull’emergenza e studiare una strategia, una politica industriale del settore. Serve un po’ di immaginazione per costruire un futuro economico
Nelle prossime settimane, il governo Renzi non dovrà soltanto spendersi nel sostegno in Parlamento a un ingorgo di provvedimenti legislativi relativi alla manovra economica e alle riforme. Sulle scrivanie dei ministri economici, e del presidente del Consiglio esiste di fatto un «dossier acciaio».
Tale «dossier» potrebbe spostare l’attenzione del Parlamento e del Paese dalla finanza pubblica all’economia reale, con effetti molto significativi sull’intero sistema economico italiano.
È basato sulla constatazione che nei Paesi avanzati l’industria siderurgica è vittima di una duplice crisi: la fase congiunturale incerta o negativa, determina una forte caduta della domanda dei prodotti siderurgici proprio quando l’innovazione tecnologica rende l’acciaio sempre più sostituibile da altri materiali.
La combinazione di questi due elementi ha portato a chiusure su vasta scala di stabilimenti siderurgici in gran parte d’Europa, in America e in Giappone e rende indispensabile per l’Italia, dotata di un settore siderurgico ancora oggi di elevata importanza a livello europeo e mondiale, la messa a punto di una strategia o, se si preferisce, di una politica industriale del settore. Non è possibile continuare a ragionare sul filo dell’emergenza, affrontando, man mano che si presentano, le situazioni di crisi di singoli stabilimenti, da Taranto a Piombino e Terni.
Nei principali Paesi siderurgici europei si è optato, di fatto, per una forte riduzione dell’importanza del settore: in Gran Bretagna la signora Thatcher sostanzialmente ne favorì la chiusura. I francesi e i belgi hanno adottato soluzioni più graduali, venduto i nodi siderurgici più importanti a grandi imprese dei Paesi emergenti, a cominciare da quelle indiane. Solo i tedeschi sembrano aver impostato una politica più articolata, basata su un’accentuata diversificazione verso tipi di acciaio più «moderni» in grado di competere con i nuovi materiali. L’Italia ha sostanzialmente «giocato di rimessa», senza elaborare una vera strategia siderurgica.
Dietro quest’assenza di strategia si individua la riluttanza ad impostare una politica industriale per la priorità necessariamente accordata alla pesantissima situazione del debito pubblico italiano. Per impostare una politica siderurgica occorrere domandarsi innanzitutto verso quali settori si indirizzerebbe la futura produzione siderurgica. Si arriva così facilmente alla risposta che i principali clienti vanno ricercati nell’ampio settore dei veicoli a motore (auto, veicoli industriali, materiale ferroviario e navi) e del settore delle costruzioni, dall’edilizia residenziale alle grandi opere pubbliche.
Per risolvere i problemi della siderurgia occorre muoversi in una prospettiva di crescita di lungo periodo di questi settori - a livello europeo e non solo italiano - e formulare ipotesi su questa crescita che coprano, almeno, l’arco di un decennio, sulla quale i politici mettano la faccia non solo in Italia ma anche in Europa. Solo così è realisticamente possibile stimare l’entità degli investimenti dell’industria siderurgica italiana, il suo fabbisogno energetico, il volume dell’occupazione da creare o mantenere. Si tratterebbe, in sostanza di rispolverare una forma leggera di «programmazione», un termine ormai dimenticato, perché odora ancora di socialismo vecchio stile. In un sistema a economia di mercato la programmazione va invece intesa come esercizio concettuale, di tipo indicativo, di messa a punto di priorità nazionali e di contributo alla determinazione di priorità europee. Come costruzione di un quadro di riferimento che consenta al mercato di muoversi meglio.
Per la siderurgia, in altre parole, l’Italia dovrebbe fare un particolare «compito a casa», ben diverso da quelli che la Signora Merkel ci raccomanda continuamente ma che la Signora Thatcher fece molto in profondità, indicando chiaramente - e operando per realizzare - un insieme di priorità nazionali. Nel caso inglese, di queste priorità il rilancio della veneranda industria siderurgica non faceva parte. Per l’Italia, al contrario, potrebbe esserci un futuro siderurgico più o meno grande ma sarebbe assurdo limitare la discussione - come di fatto oggi sta avvenendo - al numero degli esuberi di questo o quell’impianto.
La «programmazione» dovrebbe essere indicativa, lasciando ai privati il compito di realizzarne gli obiettivi e fornendo loro l’ambiente e le attrezzature necessarie. Il discorso appare ragionevole anche in sede europea, dove una programmazione flessibile del settore non è certo sconosciuta, dal momento che l’industria siderurgica è vissuta per decennio all’ombra di piani siderurgici concordati a livello dell’Unione Europea. Con queste premesse, e solo con queste premesse, è auspicabile un intervento diretto e minoritario del settore pubblico - a esempio attraverso la Cassa Depositi e Prestiti - che contribuisca a scrivere un capitolo futuro di una storia già molto lunga; non tanto a salvare provvisoriamente posti di lavoro oggi, ma a creare posti di lavoro sostenibili domani.
Questo sforzo di immaginazione e di quantificazione è una delle pietre angolari dell’impegno dell’Italia a costruire il proprio futuro economico, a pensare a «che cosa vuol fare da grande» invece di procedere con risposte episodiche a sfide importanti. Può ben essere che, a conti fatti, un euro investito nell’acciaio del futuro risulti meno produttivo e meno stimolatore di occupazione di un euro investito in un settore come l’elettronica. In ogni caso, la trasparenza razionale di un discorso che coinvolga non solo le forze politiche e il governo ma anche le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori è una premessa irrinunciabile perché l’Italia economica possa avere un futuro all’altezza del suo passato.