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 2014  novembre 03 Lunedì calendario

Sul caso di Stefano Cucchi, rimasto per ora senza giustizia, la pubblica accusa fa ammenda: sbagli da non ripetere e contrasti da sanare. Ora però la via per cercare la verità è molto stretta

L’ostinazione civile di una famiglia che non si rassegna all’assenza di giustizia e quarantotto ore di sgomento, rabbia e indignazione collettive convincono Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, a trovare parole che, per la prima volta in cinque anni, tolgono al “discorso giudiziario” sulla morte di Stefano Cucchi la sua maschera disumana. E, senza tartufismi, ne rimettono al centro la questione sostanziale. L’unica che conti, perché misura la qualità di una democrazia e quel principio di uguaglianza di fronte alla legge che ne è uno dei capisaldi: l’unico che giustifichi l’altrimenti incomprensibile monopolio della forza riconosciuto allo Stato e alle sue Istituzioni. Siano un collegio giudicante, uomini delle forze dell’ordine, agenti penitenziari, medici di un reparto protetto di un ospedale civile dove per legge viene ricoverato un detenuto.
Dice il procuratore: «Non è accettabile, dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato. Se emergeranno fatti nuovi o comunque l’opportunità di nuovi accertamenti, la procura di Roma è sempre disponibile a riaprire le indagini».
E tuttavia, nel segnalare l’insostenibilità di un’idea dello Stato che si auto assolve o, peggio, si mostra legibus solutus, libero dal vincolo di legalità, perché al riparo del “ragionevole dubbio” di un’insufficienza di prove figlia del vincolo di “omertà” dei suoi servitori, Pignatone dice qualcosa di più. La «disponibilità a riaprire le indagini in presenza di fatti nuovi», infatti, è, insieme, l’ammissione di un errore dell’ufficio della pubblica accusa e un impegno a mettervi riparo. Tardivo, evidentemente. Ma pure sempre riparo. Un impegno che va preso alla lettera e per questo meriterà di essere sottoposto a verifica, perché non si risolva in una petizione di principio utile soltanto a raffreddare animi e coscienze in attesa che altro le distragga. Epperò, appunto, nelle parole del procuratore c’è anche l’ammissione di un errore, che va raccontato per quel che è stato.
Non più tardi di sabato scorso, il presidente della Corte di appello di Roma Luciano Panzani aveva infatti difeso il lavoro dei giudici della sua Corte di Assise, ricordando che a rendere “giuridicamente impossibile” l’accertamento della verità nel caso Cucchi è stata un’insufficienza di prove ritenuta insormontabile. A meno di non voler violare garanzie costituzionali altrettanto fondamentali (quelle riconosciute agli imputati) e dunque di «aggiungere obbrobrio a orrore ». Ebbene, la raccolta delle prove (a carico, come a discarico) è lavoro della pubblica accusa. Che — ammette ora Pignatone e vanno ripetendo da tempo la famiglia Cucchi e il suo legale Fabio Anselmo — forse poteva essere più aggressivo. Quantomeno non minato da un’aperta diffidenza che dal giorno della morte di Stefano Cucchi ha diviso l’ufficio del pubblico ministero dalla parte civile (che è e resta “l’accusa privata” di un processo penale) fino al punto da renderle reciprocamente ostili persino sulla “qualificazione giuridica” da dare ai capi di imputazione per cui i 12 tra agenti di custodia e medici sono stati mandati a processo. E ancora: che poteva sicuramente essere più “vigile” sul guasto decisivo portato all’intera istruttoria da una perizia di ufficio che elideva ogni nesso di causa-effetto tra il pestaggio di Stefano e la sua morte fino al punto di individuare nella “fame e nella sete” la ragione del decesso (non a caso, oggi, Ilaria Cucchi chiede che si riparta da una nuova perizia).
Detto questo, le “nuove indagini” cui Pignatone impegna il suo ufficio hanno un sentiero molto stretto. Nella sostanza e nei tempi. Perché se è vero che la morte di Stefano Cucchi non è ancora verità giudiziaria immodificabile (resta il giudizio di Cassazione) è altrettanto vero che esiste un principio costituzionale che impedisce che un imputato possa essere giudicato due volte per uno stesso fatto. Solo “fatti nuovi” potranno dunque avvicinare a una verità diversa da quella sancita sin qui da due corti giudicanti. Ma perché questo sia il caso, quei “fatti nuovi” andranno appunto cercati. Possibilmente, cominciando a considerare l’ostinata ricerca della verità della famiglia Cucchi come una risorsa, e non un ostacolo.