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 2014  ottobre 31 Venerdì calendario

Cosa resta di Eduardo De Filippo a trent’anni dalla morte. Gli “elettorali” della fine anni Quaranta in cui il grande teatrante smontava con la sua arte il messaggio politico, i suoi capolavori in Dvd e poi i ricordi di Carlo Cecchi e quelli di Luca, suo figlio

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Il Messaggero
Anche Eduardo fece un film di propaganda, anzi ne fece vari. Proprio così. Il grande maestro del silenzio e dell’ambiguità, l’inventore di una lingua teatrale particolarissima, che impastava arcaismi e espressioni rare con il napoletano popolare, il cesellatore di battute passate in proverbio per la loro ambivalenza, capaci di essere intese da tutti anche se ognuno gli attribuiva un significato diverso, cedette all’urgenza dei tempi e interpretò alcuni brevi filmati di propaganda che sfruttavano la sua grande popolarità.
Ma il bello è che fu così abile, così insinuante, così capace di dire e non dire, di far intendere una cosa e il suo contrario, in breve fu così profondamente eduardiano da sabotare in certo modo quei film rendendoli del tutto ambigui, dunque di fatto inservibili.
Questo rovesciamento, così ironicamente vicino all’essenza del suo teatro, si produsse almeno due volte a breve distanza di tempo. Nel 1948 per le elezioni, e poi di nuovo nel 1949-1950, per il piano Marshall. Scomparsi nel nulla e ora ritrovati e restaurati dalla Cineteca Nazionale, questi due cortometraggi sono tra le rarità che arricchiscono in questi giorni le celebrazioni per il trentennale della morte del grandissimo uomo di spettacolo, a partire da quelle che si terranno oggi a Napoli all’Università Suor Orsola Benincasa.
SOGNO E REALTÀ
Nel primo, mai visto finora e intitolato Sogno e realtà, De Filippo è ubriaco e parla con voce impastata a un gruppo di compagni di bevute di cui vediamo solo l’ombra mentre scivola sempre più sbronzo sotto il tavolo continuando a parlare a ruota libera dell’importanza delle elezioni, perché «anche un solo voto può decidere il bel tempo o la pioggia»... Fino a quando non si sveglia in camera da letto e capiamo che era tutto un sogno, ma se non si sbriga a trovare la scheda non farà davvero in tempo a fare il suo dovere di cittadino, come ammonisce una voce all’altoparlante per strada.
Il secondo inedito, intitolato seccamente Monologo, è più lungo (dieci minuti contro circa tre) e ancora più interessante, come dimostra tra l’altro un prezioso libretto curato dal suo scopritore, Sergio Bruno, edito da Rubbettino con la Cineteca Nazionale. Eduardo infatti si rivolge dal suo balcone, proprio come nella famosa scena del caffè di Questi fantasmi, a un invisibile «professor Santanna», per farsi spiegare in cosa consistano gli aiuti del Piano Marshall e i loro possibili effetti.
Tutto è molto accurato in questo piccolo film, probabilmente fatto sfruttando le scenografie di Napoli milionaria, che De Filippo girava proprio in quei mesi. Eduardo è il cittadino medio, l’italiano che sa e non sa, che spera il meglio ma soprattutto vuole capire meglio. E poiché parla direttamente alla macchina da presa, la sua curiosità è subito la nostra. Ma anche i suoi dubbi diventano i nostri, perché più cose scopre sugli aiuti in arrivo dagli Usa, più si accalora augurandosi che risolvano i problemi dell’Italia, più sul suo volto si dipinge un irriducibile dubbio («Eh, e che volete... perché se uno mi fa una cortesia, non so, una gentilezza, in un modo o nell’altro io mi devo disobbligare.. Eh?»).
Così non stupisce se tanti anni dopo, nel 1982, nel suo famoso discorso al Senato, il senatore a vita De Filippo avrebbe deplorato proprio quegli aiuti «esagerati» che facendoci «entrare nel dopoguerra come protagonisti non paganti» avrebbero «falsato tutto lo sviluppo delle nostre sacrosante aspirazioni...».
Un discorso che oggi verrà riproposto proprio in Senato durante la commemorazione del grande uomo di teatro. Ancora una volta, malgrado tutta la sua voluta, sapiente ambiguità, profetico Eduardo.
Fabio Ferzetti
 
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La Stampa
Cosa rimane di Eduardo 30 anni dopo la sua scomparsa? La risposta è, moltissimo. Le sue opere sono in stampa e si vendono; le registrazioni televisive dei suoi spettacoli, riprodotte prima in Vhs e adesso in Dvd, continuano a circolare.
Interpreti di prim’ordine ripropongono regolarmente le sue commedie, chi nel segno della continuità (Carlo Giuffrè, il suo stesso figlio Luca) chi in quello della rilettura garbatamente adattata ai tempi nuovi (Toni Servillo e altri, tra cui il Marco Sciaccaluga di un recente, ammirevoleSindaco del rione Sanità). Le registrazioni curate dallo stesso Eduardo per la Rai-TV (con l’eccezione di una prima serie sciaguratamente distrutta dall’Ente) hanno consegnato alla posterità il documento di allestimenti in una veste molto vicina a quella per cui furono concepiti, il che smentisce il tradizionale assioma secondo il quale il teatro è scritto sull’acqua: anche se dell’attore, che fu immenso, nessuna pellicola può rendere il senso di comunione col pubblico. I famosi silenzi, le famose esitazioni di Eduardo, sempre dettati dal momento e dal clima che si era venuto a creare, qui non ci sono né ci potrebbero essere. Le registrazioni tuttavia sono preziose, sia perché spesso assai godibili in sé, sia come precedente col quale l’interprete moderno può confrontarsi, valutando se e come sia il caso di prenderne le distanze. Nella sua evoluzione Eduardo - l’Eduardo «serio» - da un realismo molto legato al momento passò all’esplorazione, talvolta con risvolti un po’ surreali, di temi più sottili, nascosti nel profondo della psiche umana. Non si può sradicare un capolavoro come Napoli milionaria! dalla città massacrata da quella guerra. Ma l’ambientazione letterale, per quanto gustosa, non è indispensabile ai due ancora più grandi capolavori dell’Eduardo «pirandelliano» - o meglio, postpirandelliano - vale a dire Le voci di dentro e Sabato, domenica e lunedì, due non-storie del non-detto, dove un avvenimento minuscolo (il sogno di un personaggio, il malumore di una brava casalinga) rivela ai membri di un gruppo familiare tensioni nascoste e odi repressi, con conseguenze che minacciano di diventare addirittura tragiche. E fuori dal suo tempo e buona in ogni contesto, non per nulla tradotta e replicata in tutto il mondo, è la materia di Filumena Marturano, col suo discorso sulla paternità che neanche l’odierna possibilità di risolverlo prosaicamente mediante il ricorso al DNA riuscirà mai a togliere dal repertorio.
Non c’è dunque bisogno di sottolineare il valore di Eduardo. Il teatro queste cose le decide da sé. Finché i lavori «chiamano», impresari e interpreti li mettono in scena. Quando ciò smette di accadere, passano nelle collezioni dei classici e sono offerti solo alla lettura. Qui importa piuttosto sottolineare il fatto, primo, che ciò avvenga - ossia, che le pièces siano allestite - e secondo, che ciò avvenga, e con tanta frequenza, oggi, ossia in un’epoca sempre più dominata dal predominio dell’immagine sulla parola, e del medium (cinema, Tv, web) sul contatto con la persona in carne e ossa. Se esiste tanta gente che, magari dopo aver fruito delle predette registrazioni, compra un biglietto per recarsi ad ascoltare il dettato di quei testi pronunciato da altri, vuol dire che non è ancora morto quello che una volta era considerato un bisogno primario: avere davanti un individuo che narra. Spesso sentiamo anche rimpiangere la decadenza della nostra lingua. Ma esiste, ancora, tanta gente che a quanto pare apprezza il suono di un parlato vivo, tanto più vivo quando non è koinè più o meno artificiale, ma schiettezza. Non sarà il nostro dialetto (come riduttivamente una volta lo si chiamava), ma la sua autorità ci mette in contatto con un passato nel quale non possiamo non riconoscerci. La nostra (il napoletano, NdR), disse una volta Luca De Filippo, è una lingua di cui non ci dobbiamo vergognare in Europa. Dove Eduardo (peraltro anche in inglese, io ricordo bene Laurence Olivier nella parte di nonno Antonio, «creata» dall’impagabile Enzo Petito), non ha mai smesso di commuovere, divertire e fare riflettere.
Masolino D’Amico
 
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La Stampa
Eduardo è con Carlo Cecchi per sempre, anche ora, anche in quest’autunno milanese, durante le recite della novità assoluta per l’Italia che l’attore sta rappresentando al Teatro Franco Parenti, il sarcastico Lavoro di vivere di Hanoch Levin.
Cecchi, quanto ha contato Eduardo nella sua formazione?
«Moltissimo. Con il Living Theatre, per quanto l’accoppiamento possa sembrare paradossale, è la fonte principale di quel che faccio. È stato lui a liberarmi, dandomi il permesso di recitare in lingua napoletana. Capirà, essendo nato a Firenze mi sentivo un po’ intimidito. Ma negli anni di università a Napoli mi ero nutrito della grande tradizione teatrale della città, e lui di quel continente era la punta più alta, quella che aspirava a una dimensione universale. Un miracolo di stilizzazione, sempre legato a un’idea di realismo ma, del neorealismo, l’esatto opposto».
Poi entrò nella sua compagnia.
«Però un conto era Eduardo fuori dal teatro e un conto era Eduardo capocomico. Lì cominciarono le frizioni. Il nostro rapporto non poteva che finire in modo conflittuale, se pensa poi a quant’ero giovane.... E il conflitto lo risolsi nel peggiore dei modi».
Prese la porta?
«Appunto. Sparii e gli mandai un telegramma: ”Non torno più”. Era il 1969, facevamo ”Sabato domenica e lunedì”. Non s’immagina quanto me ne sia pentito. Per un po’ di tempo evitai d’incontrarlo, Angelica Ippolito che era rimasta in compagnia mi fece sapere che minacciava azioni fisiche: ”Lo strappo ’e mazzate”»
Ma alla fine ricomponeste.
«E lui fece come se niente fosse. Andavo a fargli visita, a trovarlo in teatro. Una volta qui a Milano, nel camerino del Manzoni. Lo spettacolo cominciava alle nove e un quarto e lui mi convocò prima delle cinque. Ero un po’ bevuto dall’emozione e per strada mi chiedevo: ma come mai arriva così presto, mica deve provare. Lo trovai già seduto al tavolo da trucco, mi vide e rispose alla domanda prima ancora che gliela facessi. ”Io vengo presto”, mi disse, ”perché mi scoccio talmente che non vedo l’ora di andare in teatro”».
All’epoca aveva portato a Milano tre atti unici, tra cui quel «Sik-Sik l’artefice magico» che anche lei ha ripreso molte volte.
«L’anno prossimo lo porto a Tokyo. Il germe del lavoro di Eduardo: l’opera che, dagli Scarpetta e dai Petito, lo proietta di colpo nel gran teatro novecentesco. Il personaggio della mia carriera al quale sono più affezionato con Amleto e con il Borghese gentiluomo, e non li metto in ordine d’importanza».
Questo Yona di Hanoch Levin entrerà nella classifica?
«Un personaggio faticoso, al confronto il Malvolio della Dodicesima notte mi pare una passeggiata. È un mediocre che in una lunga notte drammatica decide di rivelare alla moglie Leviva tutta la verità sul loro fallimento matrimoniale. Levin, morto nel 1999, è il più grande drammaturgo israeliano e viene rappresentato perfino in Cina, ma qui da noi nessuno l’aveva mai tradotto o messo in scena. Mi sono rivolto all’unica che in Italia lo conosceva, Andrée Ruth Shammah, che ha fatto un intelligentissimo lavoro di regìa».
Pure lei, come Franco Parenti al quale è intitolato il teatro in cui ci troviamo, vicinissimi a Eduardo. E anche Parenti fu Sik-Sik.
«Non riesco a considerarla una coincidenza ».
Egli Santolini

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Corriere della Sera
Siamo orfani inconsolabili di Eduardo da trent’anni giusti giusti e il teatro, senza far retorica, da allora ha un posto vuoto. Per il lancio della collana di dvd che raccoglie tutte le commedie di De Filippo riprese dalla Rai, Luca, il figlio d’arte di una famiglia d’arte, ci regala un ricordo del padre. Ricorrenza di onore e gloria con serate, studi, convegni in università, libri (uno nuovo di Moscati), memorie, un bel ciclo su Rai5, l’unica rete nel cui vocabolario c’è la parola Teatro e quel magnifico Le voci di dentro , bestseller di Toni Servillo di nuovo a Milano. 
«Mi fa piacere. L’interessamento vuol dire sensibilità e voglia di approfondire. L’attualità di Eduardo sta non nell’essere veggente ma fine osservatore dell’animo umano e della società: l’uomo non cambia mai». 
Lei ha iniziato a lavorare con lui a 8 anni, il Peppeniello di «Miseria e nobiltà». Come vedeva il suo lavoro? 
«Un lavoro di pazienza, ma con una forte intelligenza. Ricordo proprio all’Odeon di Milano con la commedia di Scarpetta, la prima ripresa diretta Rai di un evento dal vivo, il 30 dicembre ’55. Lui amava Milano ma per alcuni anni non ci andò perché diceva che aveva quasi tutti i teatri con sale e camerini sotto terra, compreso il Manzoni dove fece l’ultima apparizione nel 1980». 
Strehler allestì una memorabile «Grande magìa»: che rapporto aveva con suo padre? 
«Una sera al Lirico facevo un recital, lo invitai a partecipare e lui accettò e disse una poesia di mio padre, Palcoscenici . Ho un ricordo magnifico: dietro le quinte mi abbracciò, si mise a piangere. Pare che Strehler si nascondesse a veder le prove al Piccolo di Ogni anno punto e a capo con Parenti e la Colli». 
Per chi aveva riconoscenza suo padre? 
«Eduardo, Peppino e Titina dicevano sempre che il definitivo lancio della compagnia lo dovevano al critico del Corriere , Renato Simoni, che aveva scritto benissimo di loro». 
E del suo repertorio cosa preferiva? 
«Credo che Napoli milionaria fosse tra i suoi lavori più amati. Descrive il disfacimento morale in quel momento conseguenza della guerra ma che da allora si è incancrenito. Oggi lo viviamo appieno. Del resto la divisione tra Cantate dei giorni pari e dispari sta proprio qui: la diga, l’irrimediabile confine che c’è tra prima e dopo la Seconda guerra mondiale». 
Quali furono i suoi amici di palcoscenico? 
«Ho detto di Strehler, anche se purtroppo non ha visto La grande magia con l’amico Franco Parenti, che recitò Uomo e galantuomo , per cui conobbe poi e divenne amico di Andrée Shammah, sostenendone la causa e il teatro dove andrò a Natale». 
Col cinema ci fu un rapporto di odio amore, interruptus. 
«Ci sono titoli belli e riusciti, derivazioni del palcoscenico come Non ti pago e Napoli milionaria , altri venuti male come Spara forte più forte non capisco con Mastroianni, da Le voci di dentro . Per lui il cinema era qualcosa di utile ma non necessario come il teatro, molti film li aveva fatti solo per comprare e restaurare il teatro san Ferdinando a Napoli». 
Tutti i grandi vengono dal varietà, dall’avanspettacolo. 
«Per Eduardo e la famiglia è verissimo. Al varietà divenne amico e partner di Milly e Ogni anno punto e capo era il riassunto di questo felice periodo di gioventù in cui scriveva sketch per la rivista. Così nacque, col secondo atto, Natale in casa Cupiello , cui poi aggiunse il primo e il terzo in forma di commedia». 
Com’erano i rapporti con Totò? 
«Magnifici e profondi per merito del varietà che avevano frequentato insieme in lunghe tournée “scavalcamontagne”». 
Suo padre aveva un ingegno multiforme: ma c’è uno stile? 
«C’è ma è abbastanza unico, nel senso che ogni commedia ha una sua particolarità: riconosci che è lui, ma all’interno ciascuna ha un suo modo d’essere. Ciò che le unisce poi è che alla fine nessuna è davvero realistica». 
Eppure in «Sabato, domenica e lunedì» si cucinava il ragù in scena e al Nuovo si sentiva il profumo entrando. 
«Con quel testo si divertì enormemente perché chiese alla sua sarta, Evole, ex ballerina che aveva sfilato orgogliosa con le Bluebell inglesi, di cuocere ogni sera le cipolle perché nel secondo atto si mangiavano le zite al ragù: una disperazione per gli attori che cenano dopo teatro». 
Mai visto suo padre depresso, non motivato? 
«Non ho visto una sola volta Eduardo senza voglia di andare in scena, anche col mal di denti, sempre con un senso di dovere e rispetto. Anche quando aveva paura, come con Filumena Marturano , anche quando alcuni lavori non andarono bene, tanto che alcuni titoli devono ancora trovare una loro collocazione storica». 
Oggi c’è richiesta dei suoi testi, non solo per il trentennale. 
«C’è richiesta e anche dall’estero, pur sapendo che il lavoro della traduzione è difficile e arduo, ma a Parigi hanno inserito alla Comédie Francaise La grande magìa con regista inglese e attori francesi, a Londra Judy Dench ha recitato Filumena. Con l’America il rapporto è più difficile, speriamo che in futuro si ravvedano». 
Lei sta portando in giro «Sogno di una notte di mezza sbornia»: la prossima mossa? 
«Ho in mente due titoli ma mi concedo qualche mese per decidere: La paura numero uno e Non ti pago ! . La paura di cui parla mio padre è quella della guerra. Così nella storia si decide, per placare la paura che blocca la vita quotidiana di una famiglia, di far scoppiare una finta guerra con una finta trasmissione radio: insomma, si parlava già della realtà virtuale, attualissima». 
Maurizio Porro