Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2014
All’Ilva non tornano i conti con l’ambiente: tra il 2003 e il 2010 sono stati investiti 500 milioni, più della Germania, le emissioni sono nella media dell’Ue, eppure la mortalità è elevata. La Procura di Taranto ipotizza il reato di disastro ambientale mettendo in diretta relazione 91 decessi con l’attività dell’acciaieria
C’è ambiente. E ambiente. Quello fisico-naturale. E quello sociale. I numeri sull’inquinamento, dalla loro iniziale nitidezza, sembrano quasi deformati dalla tensione che circonda la maggiore acciaieria d’Europa, che si trova incorporata all’interno di una città. E, così, a Taranto, nulla è meno sicuro delle statistiche.
Proviamo ad astrarci dal contingente. Partiamo dai numeri macro. L’Eurostat ha calcolato gli investimenti dei sistemi industriali nazionali in protezione ambientale nella siderurgia. Fra il 2003 e il 2010, la siderurgia italiana ha investito 991,1 milioni di euro: il 37,7% dei 2,68 miliardi di euro europei. Nello stesso periodo, i tedeschi hanno investito 459 milioni di euro. Meno della metà. Ma che cosa significa, in concreto, siderurgia italiana? Secondo una stima di Federacciai, significa Ilva per una quota compresa fra il 50 e il 60%: fra i 500 e i 550 milioni di euro di investimenti. Questo mezzo miliardo è coerente con quanto riportato sui bilanci dell’Ilva Spa, secondo cui gli investimenti ambientali, computati dal 1995, sono stati pari a 1,1 miliardi di euro.
Nella complessità tarantina, questi numeri collidono violentemente con quanto in due perizie (una medico-sanitaria e una chimico-impiantistica) viene evidenziato dal gip di Taranto, Patrizia Todisco. Materiale su cui la procura di Taranto ha imbastito il procedimento Ambiente Svenduto, che contempla anche l’accusa di avere manipolato - con metodi poco ortodossi - il procedimento per l’autorizzazione integrata ambientale concessa il 4 agosto del 2011.
Le due perizie descrivono l’Ilva come produttrice di emissioni inquinanti dannose per la salute e per l’ambiente, fino a imputare, fra il 2004 e il 2010, 91 morti all’acciaieria. La realtà tarantina esprime aritmetiche così diverse da risultare inconciliabili. «Eppure - si stupisce Giulio Sapelli, docente di Storia economica alla Statale di Milano e dal 1980 al 1986 consulente strategico della Montedison di Mario Schimberni - la transizione dell’industria di base verso modelli di sostenibilità ambientale appare ormai compiuta. Soprattutto in Europa. La siderurgia, da tempo, non è più un problema. L’Ilva non costituisce una eccezione». Sapelli, fin dal saggio del 1978 Organizzazione, lavoro e innovazione industriale nell’Italia tra le due guerre, si è occupato di medicina del lavoro: «I dati epidemiologici di Taranto non sono disallineati da quelli del resto del mondo avanzato».
A Taranto il primo rovello, interpretativo prima che giuridico, sono dunque i dati. Sia per quanto riguarda ciò capita al di fuori della acciaieria, in quella città che - dopo avere "subito" l’antica scelta politica di una acciaieria vicino al centro abitato - negli anni si è sviluppata anche nelle immediate vicinanze dell’impianto. Sia per quanto concerne quello che succede dentro alla fabbrica, nei corpi delle persone che vi lavorano.
Consideriamo il primo caso: prendiamo la concentrazione delle polveri sospese nel quartiere di Tamburi. Secondo la rilevazione delle centraline del Comune di Taranto (dal 1998 al 2005) e dell’Arpa Puglia (dal 2006 al 2011), da 85 nanogrammi per metro cubo nel 1998 (in quel caso, di Pts, le polveri totali sospese) e da 82 del 2001 (in questo caso, di PM10, le polveri sottili) si è scesi a 46 nel 2004, per poi risalire a 52 nel 2005, tornando a scendere a 42 nel 2006, a 40 nel 2007, a 36 nel 2008, a 32 nel 2009, per poi risalire leggermente a 33 nel 2010 e a 37 nel 2011, tornando a scendere nel primo semestre del 2012 a 33. Il tutto, mentre il tetto europeo è pari a 40.
Consideriamo, poi, il secondo caso: l’esposizione al benzoapirene degli organismi degli operai dell’Ilva. Secondo le rilevazioni effettuate sugli operai con campionatori personali, fra il 1993 e il 1994, il livello è di 7.200 nanogrammi per metro cubo (dato citato nell’articolo scientifico Esposizione professionale a idrocarburi policiclici aromatici in una cokerie nell’area di Taranto, numero 39 della rivista Medicina dei lavoratori del 1995); fra il 1999 e il 2000, secondo una perizia giudiziaria del 2000, il livello è sceso a 2.575; nel 2011 il livello è calato a 368 (Arpa Puglia-Asl Taranto).
A proposito di benzoapirene, utilizzando invece il criterio del «fuori dalla fabbrica», va ricordato come il commissario Piero Gnudi abbia riportato, nell’audizione parlamentare del 20 ottobre, il livello riscontrato nella centralina del rione di Tamburi: da 1,2 nel 2011 a 0,75 nel 2012, fino a 0,2 nel 2013. Il livello obiettivo europeo è fissato dall’Europa in 1.
Di nuovo, però, le stesse equazioni portano a risultati diversi. Prendiamo il PM10. Fra 2004 e 2010, i periti medici della procura calcolano 91 i decessi a Taranto attribuibili al superamento del limite fissato dall’Oms per la concentrazione annuale media di PM10 (polveri sottili), soprattutto nei quartieri Borgo e Tamburi, i più vicini all’Ilva. E, ancora, contano 193 ricoveri per malattie cardiache e 455 ricoveri per malattie respiratorie attribuibili al superamento del limite per PM10 fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Questo, nonostante il limite dell’Oms sia un optimum a cui tendere. Peraltro, questa perizia è una parte essenziale nella vicenda giudiziaria dell’Ilva: proprio in sede di incidente dibattimentale, quando si formò la prova, i Riva non mossero obiezioni all’utilizzo di un tetto di valori standard, ma internazionali e dunque non cogenti: secondo alcuni la loro intenzione sarebbe stata quella di contestare i numeri delle perizie, e in particolare la loro relazione ai massimali indicati dai magistrati di Taranto, in un secondo tempo; una scelta attendista che, però, si sarebbe ritorta contro di loro: nel mentre il procedimento giudiziario si è "ingrossato" con la prima ondata di arresti e il sequestro senza facoltà d’uso per gli impianti dell’area a caldo. Comunque sia, secondo questa perizia sanitaria, dall’analisi della salute degli operai dell’Ilva fra il 1970 e il 1990, secondo i periti medici emerge un eccesso di mortalità per patologia tumorale dell’11% rispetto alla media nazionale e in particolare per tumore allo stomaco (+107%), alla pleura (+71%), alla prostata (+50%) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali sono risultate in eccesso le malattie neurologiche (+64%) e quelle cardiache (+14%). Gli stessi periti dicono che per gli impiegati Ilva presentano eccesso di mortalità per tumore della pleura (+135%) e dell’encefalo (+111%). Scrivono i periti chimici: «Si ritiene ragionevole affermare una correlazione preferenziale dei contaminanti riscontrati nei tessuti e negli organi animali».
Nella complessità tarantina, i numeri non illuminano. Nota Sapelli: «I Riva hanno fatto investimenti per l’ambiente, ma non sono riusciti a gestire con un pensiero politico alto uno stabilimento di quella dimensione, con caratteristiche uniche: l’unione intima con il resto della città e l’uscita non indolore dalle Partecipazioni statali. Una situazione così prevedeva una governance da grande impresa internazionale. Colloqui quotidiani con il governo di Roma. Un dialogo diretto con il sindacato nazionale». E, invece, le cose sono state gestite al di fuori di questi standard. Nota il sociologo Bruno Manghi, direttore dal 1981 al 1983 della Scuola del Sud fondata a Taranto dalla Cisl: «Taranto, città borghese che ha a lungo rimpianto la Belle Époque e l’età aurea dell’arsenale militare, ha sempre avuto un fondo di ostilità storica verso l’Italsider. Figuriamoci quando le vacche grasse, anzi grassissime, delle Partecipazioni Statali sono morte. E sono arrivati questi imprenditori del nord. Bravi. Ma chiusi nella loro fabbrica. Convinti di poterla gestire come fosse l’impianto di Caronno Pertusella».
Il contrasto fra la tensione interna («hanno portato una gerarchizzazione prima sconosciuta, con i collaboratori impegnati a diventare più realisti del re», asserisce Cosimo D’Andria, leader sindacale cislino storico, matricola numero 7 dell’Italsider) e l’emergere delle tensioni con la comunità ha favorito la creazione di un humus prima di tutto emotivamente velenoso. «L’impasto è stato micidiale - nota Biagio De Marzo, ex dirigente Italsider e leader degli ambientalisti non radicali - la scelta di metodi di infimo livello per influenzare la politica tarantina ha vellicato una classe dirigente locale di bassa qualità. Mai spinta, nel confronto con una grande impresa, a progettualità di ampio respiro». Anche per questo, a Taranto, le equazioni producono risultati sempre diversi.