Corriere della Sera, 31 ottobre 2014
Diane von Fürstemberg racconta la sua «vita da uomo nel corpo di una donna» in un libro. Un’autobiografia che ripercorre i suoi 67 anni, dalle feste sfrenata al Club54 di New York ai suoi due matrimoni, dalla triste storia della madre, deportata ad Auschwitz, al successo del wrap dress. Tutto senza veli o reticenze
«Ho realizzato i miei sogni, ho vissuto le mie fantasie, ho avuto quello che volevo: la vita di un uomo nel corpo di una donna». Diane von Furstenberg srotola il racconto della sua vita piena di incontri e avventure, sentimentali e non, nel suo vasto e coloratissimo studio: una bolla di cristallo in cima all’edificio del Meatpacking District di New York che ospita il quartier generale di DVF, la sua casa di moda, e che è anche la sua abitazione per tre giorni a settimana. Il resto del tempo lo passa viaggiando o nella fattoria di Cloudwalk, in Connecticut, col marito, il tycoon delle tecnologie digitali Barry Diller (proprietario, tra l’altro, di Expedia, Ticketmaster e Ask.com, con un passato di presidente di Paramount e Fox), che ha aspettato 28 anni prima di poterla sposare, nel 2001.
Una storia che spazia dalle feste sfrenate al Club 54 di New York negli Anni 70 dove amava presentarsi da sola, coi stivali da cow boy, al breve, appassionato e turbolento matrimonio col principe Egon, figlio di Tassilo, patriarca della dinastia austroungarica dei von Furstenberg, e di Clara Agnelli, sorella dell’Avvocato, allo straordinario successo come stilista col suo «wrap dress». Un abito disegnato 40 anni fa che ha cambiato il modo delle donne di vestire e che sfida il tempo e l’evoluzione delle mode, visto che sono ancora in tante a indossarlo, da Michelle Obama ad Amy Adams nelle scene di «American Hustle».
Io e gli italiani
Mi rivolgo a lei in inglese, ma lei passa subito all’italiano che parla alla perfezione: «Non l’ho mai studiato, ma ho avuto diversi uomini italiani, da Jas Gawronski ad Alain Elkann, e poi ho lavorato tanto con Angelo Ferretti, mio amico e mentore, la persona alla quale devo di più per quello che sono diventata professionalmente». E, ancora, le tante vacanze in Italia, la frequentazione dell’ex marito Egon che viveva a Roma e col quale ha sempre mantenuto un rapporto d’amicizia, assistendolo anche in punto di morte, dieci anni fa. E il rapporto affettuoso che mantiene con John, Lapo e Ginevra, i figli di Alain Elkann e Margherita Agnelli. Anche il suo primo vero amante, Lucio, un ragazzo che somigliava molto a Marcello Mastroianni, conosciuto durante una vacanza a Riccione quando aveva 16 anni, era italiano.
Lo racconta lei stessa in uno dei due libri che pubblica in questi giorni: «The Woman I Wanted to Be», edito da Simon & Schuster, e «Journey of a Dress», il volume di fotografie edito dalla Rizzoli che ripercorre i quaranta anni della storia dell’abito semplice e geniale che ha fatto la sua fortuna: «Un abito in jersey stampato, semplice da indossare, sexy ma non troppo vistoso: un uomo poteva presentare senza imbarazzi alla madre la sua ragazza con indosso uno di questi miei vestiti. Che non erano nemmeno troppo costosi, cosa che mi ha consentito di venderne subito milioni. Per me il wrap è stato la fonte della libertà e dell’indipendenza: è quello che mi ha consentito di pagare tutto, dai viaggi alle case, alla scuola dei figli, senza dover dipendere da nessuno. Solo di recente, ripercorrendone la storia, mi sono resa conto che quel vestito ha avuto addirittura un impatto sociologico sulle donne americane».
Per ricordare Lily
Una storia professionale e un libro autobiografico: molti evitano di cimentarsi in imprese simili temendo che appaiano come bilanci di fine carriera. Diane no. Si è lanciata, col solito entusiasmo, anche nell’impresa editoriale: «Il libro sulla mia storia è nato soprattutto dal desiderio di raccontare mia madre, Lily Nahmias, e l’importanza che ha avuto per me: una donna fortissima, sopravvissuta alla detenzione ad Auschwitz e in una circostanza, le sembrerà incredibile, venne salvata dalla camera a gas da un intervento di Josef Mengele», il medico nazista soprannominato l’angelo della morte per i suoi feroci esperimenti sugli ebrei deportati.
Finita la sua detenzione, Lily, che pesava meno di trenta chili, non sembrava in grado di sopravvivere. Invece ce la fece e l’anno dopo, nonostante il giudizio contrario dei medici, volle avere un figlio. Diane dice che per tutta la vita questa storia — l’avventura umana di sua madre, il fatto di essere nata da una sfida — le hanno dato forza e determinazione: «Sei la mia torcia della libertà, mi diceva, e tra le tante lezioni che mi ha impartito ce ne sono due che ho sempre davanti: la prima è che la paura non può mai essere un’opzione, non ti può condizionare. L’altra è che non bisogna mai attardarsi a contemplare il lato cupo delle cose. Per quanto brutta possa essere una situazione, bisogna sempre cercare uno spiraglio di luce e costruire qualcosa attorno».
Il volto è la mia memoria
Una vitalità e un ottimismo che hanno consentito alla von Furstenberg di tornare in America e nel mondo della moda da protagonista dopo gli anni dell’esilio a Parigi e dopo aver visto evaporare il suo successo imprenditoriale. Diane ha ricostruito il suo brand e la sua azienda. Ora cerca di darle una struttura che possa sopravvivere anche quando lei non si occuperà più attivamente di moda in modo da lasciare una sua legacy . E non ha paura di raccontare la sua vita voltandosi indietro: «Cosa vuole, ho 67 anni: resto giovane dentro ma, certo, non posso arrabbiarmi se gli uomini non si voltano più. Invecchiando, però, scopri altre cose che ti rendono felice. Scopri di avere una storia. Se è densa e ti piace puoi vivere i tuoi giorni appagata, serena. Racconti un’esperienza che magari può ispirare altri». La determinazione e la trasparenza di Diane, che nel libro ripercorre la sua vita senza veli e reticenze, la ritrovi anche nella scelta di questa donna adorata per decenni anche per la sua bellezza, di non ricorrere alla chirurgia estetica: «Non mi piace vedere la mia immagine che invecchia nelle foto, ma ho più paura di non riconoscermi allo specchio: non voglio perdere la complicità con me stessa che viene proprio da quell’immagine nella quale vedo la mia vita. Le rughe riflettono il cammino che ho fatto. La mia faccia è la mia memoria. Perché cancellarla?».