Corriere della Sera, 31 ottobre 2014
Usa, martedì le elezioni di medio termine. I democratici forti di un Pil che cresce (+3,5%) e della disocupazione che cala (sotto il 6%) rischiano di perdere contro un partito, quello Repubblicano, spaccato, privo di un leader e di un programma. I conservatori, che riconquisteranno la Camera, hanno buone probabilità di espugnare anche il Senato. E Obama ha le mani legate...
Repubblicani privi di un vero leader, spaccati tra ala massimalista dei Tea Party e vecchio establishment moderato. Per di più, privi di un vero programma, al di là dell’ostilità preconcetta per qualunque intervento pubblico in economia, investimenti in infrastrutture compresi. Eppure questo partito debole e sfiancato si accinge a vincere a man bassa, martedì prossimo, le elezioni di midterm: riconquisterà la Camera con ampio margine e ha buone possibilità di espugnare anche il Senato. Non è facile spiegare a un lettore, soprattutto a un lettore dell’Europa in recessione, come sia possibile che i democratici, partito di governo di un Paese che cresce al 3,5% (dati del Pil di ieri) e che ha ridotto la disoccupazione al 5,9%, possano andare incontro a una sconfitta elettorale tanto pesante.
I motivi sono diversi e andrebbero esaminati separatamente. Ci sono quelli istituzionali: mentre alle presidenziali vince chi conquista più voti nei singoli Stati, per l’elezione dei deputati al Congresso contano i singoli collegi che sono stati ridisegnati Stato per Stato, spesso in modo spregiudicato, soprattutto per iniziativa di governatori repubblicani, in modo da creare bacini elettorali socialmente omogenei. Cosa che in molti casi ha favorito i candidati conservatori. Poi ci sono i motivi economici. Il Pil cresce, è vero, ma crescono anche le disparità nelle distribuzione del reddito: il proletariato nero resta povero, si sente tradito e non va a votare. I ceti medi bianchi vedono i loro redditi ristagnare e passano dal tradizionale ottimismo dell’american dream al rancore.
Quanto all’occupazione, sale, è vero: ma molti dei nuovi posti di lavoro sono part time o, comunque, sono più precari. È così ovunque con globalizzazione ed economia immateriale, ma chi non gradisce la novità protesta come può: magari con un voto che sa di ribellione o disertando le urne.
L’indebolimento dei democratici registrato dai sondaggi soprattutto nelle ultime settimane dipende, comunque, soprattutto dalla continua perdita di popolarità di Barack Obama. Quando arrivano a metà del loro secondo mandato, i presidenti Usa non sono mai in gran forma: basti pensare a George Bush, considerato otto anni fa un peso morto dal suo stesso partito, o al Bill Clinton dello scandalo Lewinsky. La caduta del primo presidente nero della storia americana si sta rivelando particolarmente rovinosa perché la sua figura aveva suscitato speranze eccessive e perché lui stesso aveva fatto promesse impossibili da mantenere, ma anche per altri motivi: Obama è arrivato alla Casa Bianca nel bel mezzo di una crisi epocale che sta cambiando i connotati dei sistemi economici e del mercato del lavoro. Mentre un mondo sempre più frammentato rende problematico l’esercizio della leadership Usa. Il presidente ci ha messo, poi, del suo col suo distacco, gli atteggiamenti cerebrali, la mancanza di una visione strategica coerente, l’incapacità di disinnescare l’ostruzionismo repubblicano che ha finito per paralizzare il Congresso.
Cambierà qualcosa dopo il voto? Probabilmente no, indipendentemente dall’esito delle elezioni. Se i repubblicani conquisteranno anche il Senato, Obama avrà ancor più le mani legate. Magari vedremo un’inversione dei ruoli, coi democratici a fare filibustering (ostruzionismo) contro leggi sgradite votate da un Congresso conservatore. Ma c’è anche qualche ottimista che pensa che, se avranno il pieno controllo di Camera e Senato,i repubblicani si comporteranno in modo più responsabile, non potendo più giocare a fare solo l’opposizione.
Scontata la vittoria alla Camera dove la destra ha già oggi una maggioranza di varie decine di seggi, al Senato i repubblicani la spunteranno se riusciranno a conquistare almeno quattro seggi in più (oggi i democratici ne controllano 53 su 100). Sembrava un’impresa impossibile, visto che questa assemblea verrà rinnovata solo per un terzo, ma nelle ultime settimane il crescente malumore degli elettori verso il governo Obama, complici le incerte risposte al terrorismo dell’Isis e la paura di Ebola, sembra aver prodotto nuovi smottamenti negli Stati dell’interno. I sondaggi vanno presi con prudenza, ma ora anche «Crystal Ball», il sito di previsioni elettorali del politologo Larry Sabato, un personaggio di certo non ostile ai democratici, invita a scommettere su una vittoria repubblicana anche al Senato. Il moltiplicarsi delle previsioni a favore dei conservatori dipendono dal fatto che mentre dei 5 Stati «in bilico» 3 sono oggi in mano ai democratici (Iowa, New Hampshire e North Carolina) mentre solo 2 sono dei conservatori (Georgia e Kansas), i sondaggi danno i repubblicani in netto vantaggio in cinque Stati oggi rappresentati da senatori democratici: Arkansas, Louisiana, Montana, South Dakota e West Virginia.