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 2014  ottobre 30 Giovedì calendario

La scelta del nuovo ministro degli Esteri italiano non può dipendere solo dal sesso o dall’età dei candidati. Ci sono criteri di valutazione più importanti per chi deve guidare la nostra diplomazia. Consigli per il premier Renzi

Negli ultimi giorni, in attesa della nomina del nuovo Ministro degli Esteri, abbiamo assistito a un toto-ministro che è sembrato procedere in modo assolutamente originale: invece dell’emergere di una rosa di candidati sempre più ristretta, tutti i giorni si aggiunge il nome di un nuovo potenziale candidato.
Niente di strano forse, e niente di male – se questo procedere a colpi di sempre nuove ipotesi fosse in grado di aumentare l’interesse dei cittadini, tradizionalmente piuttosto scarso, nei confronti della politica estera.
Vi è però, in questo procedere focalizzato sulle persone, qualcosa che risulta piuttosto inquietante. Si dibatte soprattutto, infatti, se finirà per prevalere, nella scelta, la questione di genere (una donna, Mogherini, da sostituire con un’altra donna), oppure una considerazione sull’età (con Renzi, dopo una lunga storia gerontocratica, è venuto il momento dei giovani).
Visto che la politica italiana risulta da qualche anno affascinata dall’uso dell’inglese – da «I care» al ministero del Welfare al Jobs Act – forse non sarebbe male ricordarsi, per affrontare il tema della nomina alla Farnesina, di un’altra espressione: «job description».
Se si facesse, ci si renderebbe subito conto che la scelta è non solo difficile, ma anche estremamente importante, e che quindi dovrebbe essere sottoposta a robusti criteri di valutazione. In primo luogo, certo, la competenza in materia di politica internazionale e, va ovviamente aggiunto, la conoscenza non superficiale dell’inglese, ormai indispensabile lingua franca internazionale.
Va aggiunto però che qui non si parla di un concorso a una cattedra di relazioni internazionali, bensì di un incarico governativo, quello di responsabile della politica internazionale.
Il fatto che questa dimensione non sembri essere al centro dei criteri presi oggi in considerazione suggerisce inevitabilmente l’ipotesi che il ruolo di ministro degli Esteri venga oggi visto come un compito di natura tecnica, con il corollario che la politica estera rimarrebbe dominio riservato del Capo del governo. A parte il fatto che fra le molte doti dell’attuale Presidente del Consiglio non sembra esserci quella della competenza in materia di politica estera, pensare che il ministro degli Esteri sia una sorta di super-diplomatico farebbe perdere l’indispensabile divisione di ruoli fra livello diplomatico e livello politico, e inoltre consacrerebbe la deriva, da considerarsi perniciosa, verso uno svuotamento del ruolo del ministero degli Esteri. Sappiamo che la politica estera italiana non ha sempre beneficiato della prevalenza della dimensione politica interna (anche il Mae era spesso attribuito sulla base dell’applicazione del famigerato «Manuale Cencelli»), ma va detto che il fatto che la carica di ministro sia stata ricoperta in passato da personalità politiche come De Gasperi, Nenni, Fanfani, Segni, Saragat, Moro, De Michelis, Dini, Amato, D’Alema dovrebbe far riflettere sul rilievo politico e non tecnico della carica.
Oggi, certo, serve la competenza. Ma serve anche il senso politico, e andrebbe aggiunto, il peso politico, fra l’altro importante per rappresentare efficacemente in sede di Consiglio dei ministri, e di ripartizione delle risorse, le esigenze della struttura preposta alle relazioni internazionali del nostro Paese.
E poi, basta scorrere, in un giorno qualsiasi, i titoli di un quotidiano per rendersi conto delle colossali, spesso drammatiche sfide che la politica estera italiana dovrà affrontare nell’immediato futuro. Per nominarne solo alcune: il collasso dello Stato libico, da cui siamo divisi da un breve tratto di mare e da cui provengono minacce ben più gravi, per la nostra sicurezza, del pur drammatico flusso di migranti disperati; le ripercussioni di una globalizzazione i cui frutti positivi corrono il rischio di essere oscurati dagli aspetti negativi, dal terrorismo trans-nazionale alle malattie epidemiche; la crisi generalizzata dello Stato in tutto il Medio Oriente, un’area da cui dipendono largamente sia la nostra sicurezza che i nostri rifornimenti energetici; il rinnovarsi delle tensioni in Europa, con l’aspirazione della Russia di ricostituire una propria area di sicurezza ed egemonia sia economica che politica.
Di fronte a questi problemi spinosi, complessi, gravidi anche per noi di potenziali ripercussioni negative, servirebbero quindi non necessariamente una donna, un giovane, un esperto di relazioni internazionali, ma qualcuno che unisca alla conoscenza dei grandi dossier internazionali, e se possibile anche l’esperienza nel trattarli, un profondo senso politico, una forte capacità di negoziato e anche di relazione personale, dato che molto spesso oggi gli incontri fra ministri si svolgono in chiave informale, diretta, dialettica e dialogica. Forse il criterio di riferimento potrebbe essere quello di chiedersi, ad esempio, chi sarebbe in grado di sostenere adeguatamente un faccia-a-faccia con Lavrov, il ministro degli Esteri russo che unisce una grande competenza ad un’ancora più grande fermezza (per non dire durezza) in sede di negoziato politico.
Speriamo che la decisione tenga conto di tutto questo, ma se oggi ne scriviamo, superando l’imbarazzo che produce esprimere quello che dovrebbe essere ovvio, è perché non ne siamo del tutto sicuri.