la Repubblica, 30 ottobre 2014
Parla Evo Morales, il presidente indio della Bolivia con un passato da contadino e coltivatore di coca: «Così ho fatto del mio Paese un modello di sviluppo copiato anche dagli Usa. Per secoli il popolo è stato sfruttato: con me è arrivato al potere»
«Papa Francesco – dice Evo Morales – ha posizioni rivoluzionarie, è anticapitalista come me, sta con i deboli, è una nuova speranza per la Chiesa». L’abbraccio e l’incontro privato con il Papa – una cena martedì sera durata poco più di un’ora e mezza – hanno aperto la tre giorni romana del presidente boliviano. Rieletto il 12 ottobre con il 60% dei suffragi, l’indio Evo Morales è ormai in America Latina il campione della tendenza bolivariana, del «socialismo del XXI secolo». Ma lo è diventato grazie a una gestione pragmatica dell’economia, ai conti in ordine, a grandi riserve di valuta per l’esportazione di gas e petrolio. Con politiche redistributive del reddito. E un futuro promettente con la quinoa e il litio. La sua Bolivia è, al contrario di paesi come il Venezuela post chavista e l’Argentina, un esempio di successo politico e economico. Morales in questi giorni inizia il suo terzo e ultimo mandato sulle ali di un trionfo elettorale. Con il tempo - venne eletto nel 2005 ha smussato qualche radicalismo, ma insiste sulla necessità di un mondo senza consumismo, sperpero e lussi: «Nelle zone più povere del pianeta — afferma — muoiono di fame milioni di esseri umani e allo stesso tempo, nella parte più ricca della Terra, si spendono milioni per combattere l’obesità e si sprecano tonnellate di alimenti». Molto appassionato di calcio, romanista, fan di Totti, ieri sera ha convinto anche il direttore generale della Fao a cimentarsi in qualche dribbling con lui e poi è andato allo stadio a vedere giocare la Roma.
Presidente, è giusta l’analisi secondo la quale il suo miglior risultato è stato quello di riunificare politicamente la Bolivia?
«Sì, non ci sono più le due Bolivie di quando arrivai al potere. Quella delle indios delle Ande e quella dei discendenti europei delle pianure. Il 12 ottobre hanno votato tutti per me, abbiamo vinto in ogni regione del paese, tranne una».
Come è stato possibile? Solo alcuni anni fa si temeva una secessione nel suo paese fra le aree più ricche e le aree delle Ande dove vivono gli indios più poveri. Era anche nato un partito che lottava per l’indipendenza della “mezzaluna”, le quattro regioni non andine.
«Non c’è più la mezzaluna, siamo diventati una Luna piena. Per me era molto importante l’unità del paese. Non solo quella territoriale, anche quella culturale, sindacale, sociale. I secessionisti sono stati sconfitti. Abbiamo ottenuto questo risultato lavorando insieme con tutti i Comuni e insieme ai movimenti sociali».
Un’altra cosa che sorprende è la situazione economica. I conti sono in ordine, l’inflazione bassa, la disoccupazione è scesa al 3%, il Pil continua a crescere. Perfino l’odiato Fmi oggi indica la Bolivia come un modello.
«Quando il Fondo monetario dice qualcosa di positivo su di noi, mi preoccupo. Ma la verità è che oggi siamo noi a fornire ricette e esempi di amministrazione al Fondo e non più loro a noi. Il nostro ministro dell’Economia non discute solo con il Fondo monetario, ormai lo invitano le Università americane e va a spiegare il nostro modello. E in cosa consiste il nostro modello? Superare l’economia delle risorse naturali e passare da un’economia delle materie prime ad una industriale senza perdere di vista gli aspetti sociali».
Quando Lei arrivò alla presidenza nel 2005 la Bolivia era un paese nel caos, c’erano rivolte contro la privatizzazione delle risorse, i presidenti duravano pochi mesi, uno addirittura fuggì. Cos’è cambiato con l’elezione del primo indio nativo?
«Penso che siamo riusciti a cambiare anche la percezione del fare politico. Prima di noi la politica era gli interessi e gli affari dei politici, l’élite bianca che saccheggiava il Paese. Per loro la politica era la scienza di come utilizzare il popolo. Per noi la politica è la scienza di servire il popolo».
Lei che vince in Bolivia, la Rousseff in Brasile, il partito di Pepe Mujica in Uruguay, la Bachelet in Cile. C’è una sinistra in America Latina che ha dimostrato di saper governare...
«Ero un contadino, un cocalero, coltivavo le foglie di coca, e nel mio Paese si diceva che i contadini servivano solo per votare, mai per governare. Abbiamo dimostrato il contrario. In America Latina c’è un sentimento diffuso di liberazione democratica, di rifiuto delle vecchie politiche di dominazione e saccheggio. Non dico un sentimento anticapitalista ma di certo anticolonialista».
Crede ancora nel “socialismo del XXI secolo”?
«Ogni Paese ha le sue peculiarità. In Bolivia abbiamo un’economia plurale con molta attenzione a ridurre le differenze nel reddito. In meno di 10 anni la povertà estrema è scesa dal 38 al 18% e scenderà ancora. La disoccupazione è al 3%. Tutto ciò lo abbiamo ottenuto nazionalizzando le risorse naturali che prima venivano saccheggiate».
Nel suo Paese c’è tuttora il grave problema del lavoro infantile?
«C’è una differenza culturale. Io ho iniziato a lavorare nella mia famiglia appena ho imparato a camminare. Purtroppo quando si è poveri anche i bambini aiutano le famiglie. Riducendo la povertà risolveremo anche questo dramma».