Corriere della Sera, 30 ottobre 2014
Don Maks Suard, il prete di Trieste che prima di uccidersi ha confessato in una lettera l’abuso compiuto 17 anni fa: «Se solo avessi saputo del male che facevo...»
Sabato 25 ottobre. Un uomo improvvisamente solo con i suoi rimorsi torna a casa senza più voglia di vivere. Pochi chilometri e molta, moltissima fatica. È irriconoscibile, quando apre la porta, quando si siede stanco come avesse scalato una montagna, quando prende carta e penna e comincia a scrivere. «Se solo avessi potuto immaginare tutto il danno che le stavo facendo...».
Pare di vederlo, don Maks Suard. Chino sulle parole che scrive al suo vescovo e sotto il peso di un ricordo riemerso da un passato lontanissimo. Ci mette tre giorni a fare i conti con il mondo e a implorare Dio di perdonarlo perché sta per fare la cosa più imperdonabile di tutte: uccidersi. Martedì è il giorno della fine. Alle quattro del pomeriggio il vescovo Giampaolo Crepaldi lo chiama per avvisarlo: «Sto arrivando». «Va bene» risponde lui. E si impicca, sapendo bene che sarà monsignor Crepaldi a trovarlo.
Don Suard aveva 48 anni ed era sacerdote della comunità slovena della diocesi di Trieste. Si è tolto la vita dopo aver saputo che una ragazzina conosciuta tanti anni prima, la settimana scorsa lo aveva accusato di pedofilia. Quando è stato convocato in Curia, sabato, tutto poteva immaginare salvo che quegli episodi e quella ragazzina tornassero a galla. «È tutto vero» ha confessato stordito dalla memoria di istanti ormai sepolti dal tempo. E ha raccontato dettagli che coincidono con la versione della sua vittima, all’epoca tredicenne: furono approcci sessuali e avances in più di un’occasione e successe tutto 17 anni fa nella parrocchia di San Dorligo Della Valle, a pochi chilometri da Trieste.
C’è un motivo per cui tutta questa storia riemerge soltanto adesso, dopo 17 anni. La ragazzina dell’epoca, oggi trentenne, è la zia di un’adolescente che frequenta la parrocchia di don Suard, cioè quella della frazione triestina di Santa Croce. Per la donna è bastato che la nipotina nominasse il sacerdote per riaccendere i riflettori sugli abusi subiti nel 1997 e, ovviamente, mai dimenticati. La denuncia è stata un modo per proteggere la ragazzina ma è stata anche una richiesta di giustizia per sé. La donna è prima andata in Procura, poi dal vescovo.
Don Suard non ha nemmeno provato a fingere, a negare, a giustificare. Mentre parlava e ammetteva sembrava quasi rendersi conto per la prima volta di quel che aveva fatto. «Adesso mi prepari una lettera di dimissioni dall’incarico pastorale e poi dovrò inviare tutto alla Santa Sede» gli ha annunciato il vescovo. E il parroco è tornato in canonica con più coraggio per morire che per vivere. Aveva chiesto lui stesso un paio di giorni di tempo per preparare una memoria scritta «in cui chiedere perdono a Dio, alla Chiesa e alla ragazzina per il male commesso», ha spiegato monsignor Crepaldi.
In realtà don Suard ha scritto la lettera di dimissioni, il testamento e una lunga lettera al vescovo nella quale ha ripetuto in gran parte ciò che aveva già ammesso. Chi ha letto le sue parole ne riassume il senso: «Io non la vedevo come una bambina, non mi rendevo conto di fare un danno così grave» si è ricordato il sacerdote ripensando a 17 anni fa. Senza mai entrare nei dettagli degli approcci sessuali con la tredicenne, spiega di essersi tormentato anche allora non tanto per la consapevolezza di quel che era successo quanto per il fatto di provare quell’attrazione che il suo abito talare non consentiva: «Ricordo che mi sono confessato e ho chiesto il trasferimento» racconta nella sua lettera-memoria. E dice che le pulsioni che provava, quel 1997, lo hanno indotto tante volte a dubitare della sua missione, a pensare che «se fosse successo anni prima forse non sarei mai diventato prete» (fu ordinato sacerdote nel 1995). Quella che lui chiama «confessione» la fece con un padre spirituale e amico (che nella lettera cita con nome e cognome). Il trasferimento di cui parla fu concesso, ma non subito. «Mai avrei potuto immaginare di aver causato un danno così grave a quella ragazza» scrive. E ancora: «Avrei voluto chiederle perdono ma non ce l’ho fatta. Se potessi riparare al danno commesso... ma so che non è possibile».
La lettera ha una brutta copia, lasciata accanto agli altri fogli: sono frasi che poi lui ricopia esattamente identiche ma sono scritte con una calligrafia incerta, con parole scarabocchiate, con righe che non finiscono dritte. È come se le parole stesse sbandassero assieme a lui, arrivato a fine corsa. Solo come non era stato mai e con gli occhi fissi su un orizzonte buio, anche se fuori c’era un gran sole e il cielo blu.