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 2014  ottobre 30 Giovedì calendario

In America vanno fortissimo gli scrittori italiani, da Leopardi a Levi fino ad Elena Ferrante. Intervista ad Ann Goldstein, da vent’anni la più importante traduttrice americana della nostra letteratura: «È un momento felice per il vostro Paese»

«Prima il successo di Elena Ferrante, ora la traduzione integrale di Primo Levi. È decisamente un momento felice per la cultura italiana a New York». Per tirarsi un po’ su bisogna fare una telefonata al New Yorker, sofisticata icona della Manhattan intellettuale. All’altro capo del filo è Ann Goldstein, responsabile del Copy Department e voce americana di molti scrittori italiani. La settimana scorsa ha festeggiato i quarant’anni di lavoro dentro la rivista. La sua avventura tricolore cominciò nel 1992, quando Saul Steinberg portò in redazione il manoscritto di un suo amico ed Ann era l’unica capace di tradurlo.
Si trattava di Cecov a Sondrio di Aldo Buzzi. Da allora sono passati due decenni e migliaia di pagine tra lo Zibaldone e il Petrolio postumo, i romanzi di Baricco e Piperno, la fortunata polifonia della Ferrante. E ora l’opera multiforme dello scrittore chimico, a cui Norton dedica in primavera un’edizione in tre volumi, Complete Works , a cura della Goldstein.
Perché Levi? Cosa piace al pubblico americano?
«L’idea è stata di un editor di Norton-Liveright, Robert Weil, assai appassionato di Levi. Ci ha messo più di cinque anni per acquisire tutti i suoi diritti, e poi sono entrata io nel progetto. Quando abbiamo cominciato a leggerne le traduzioni inglesi, ci siamo accorti che non era stato rispettato l’assetto voluto dallo scrittore. Abbiamo deciso di risistemare i libri nella forma originale, rimettendo mano anche alle traduzioni».
Nella sua prima apparizione, Se questo è un uomo fu presentato al pubblico americano con il titolo di Survival in Auschwitz e La tregua con Reawakening , il risveglio. Titoli molto rassicuranti.
«Titoli orribili, scelti dalle case editrici per vendere copie».
A Primo Levi non piacevano perché gli sembrava che annacquassero la tragedia nel lieto fine.
«Noi siamo stati fedeli all’originale: If this Is a Man e The Truce. Per noi il criterio fondamentale è stato quello di seguire le indicazioni di Levi, anche nel tentativo di restituirne tutta la poliedricità. Vorremmo darne un’immagine più completa, non più schiacciata testimone dell’Olocausto».
Ad aprirgli il successo negli Stati Uniti, alla metà degli anni Ottanta, fu un’opera non solo testimoniale come Il sistema periodico.
«Sì, probabilmente influì anche il giudizio di Saul Bellow che presentò quei racconti come un capolavoro. “Non c’è niente di superfluo”, scrisse, “ogni cosa è essenziale”. Di questo parla lungamente Weil nel suo saggio sulla fortuna di Levi in America».
Racconta anche dell’amicizia con Philip Roth. Lo scrittore americano andò a trovare Levi a Torino nel 1986, poco prima della scomparsa.
«Sì, era stato incaricato dalla New York Times Book Review di farne un ritratto sullo sfondo della sua vecchia fabbrica. Roth rimase molto colpito dalla sua capacità di ascolto, dall’intensità dell’attenzione. E tra tutti gli artisti del Novecento, tra quelli intellettualmente attrezzati, gli appariva come il più adatto a cogliere la totalità della vita intorno a sé. Il suo saggio sarebbe uscito un mese prima della morte di Levi».
Domenico Scarpa, che l’ha studiato a lungo, fa notare un’eccezionalità: di solito, nel passaggio dall’italiano all’inglese, i testi si restringono. Nel caso di Levi succede il contrario. Il suo italiano risulta più sintetico dell’inglese.
«Sì, Mimmo dice questo, e forse ha ragione. Ma io non ho contato le parole!».
E con l’yddish di una banda partigiana? È vero che l’yddish usato da Levi è apparso agli americani poco convincente?
«Sì, sapevo anche io di queste perplessità. Forse perché abbiamo una memoria culturale più ricca, e molti termini yddish fanno parte della nostra lingua».
La sua radice ebrea ha inciso nella traduzione di Levi?
«Non credo. In realtà sono un’ebrea cresciuta senza alcuna educazione religiosa. La mia è una delle tante famiglie che si è voluta assimilare a tutti i costi».
Ma dar voce al dolore di Se questo è un uomo non l’ha toccata nel profondo?
«Forse sì, ma in modo del tutto inconsapevole».
Provare empatia per un autore facilita la traduzione?

«Per un verso sì. Se ami uno scrittore le cose vanno più speditamente… finché non ci si stufa. Ma anche nei testi più insidiosi c’è sempre qualcosa da imparare. Mi è capitato con Petrolio, che è stato il mio secondo lavoro di traduzione. E più tardi con Leopardi. Tradurre significa anche scoprire».
Con chi si è divertita di più?
«Con Elena Ferrante, specie in questo suo ultimo ciclo napoletano. Sono rimasta catturata dall’amicizia tra Elena e Lila narrata nella tetralogia — il terzo volume Storia di chi fugge e di chi resta è appena uscito a New York. Sul tema del sodalizio femminile non è stato scritto granché. E la Ferrante ha la capacità di analizzarlo con un’intensità incredibile, direi quasi con brutalità. In un’intervista a Vogue ha dichiarato che nella finzione è possibile spazzare via tutti i veli dell’ipocrisia. Scrivere è un modo per evitare di mentire».
Ma è per questo che piace così tanto ai lettori americani?
«Chissà, per me è un mistero. Certo conta la sua capacità di creare un mondo che tiene prigioniero il lettore. Una volta entrati, è difficile scappare. Le confesso una cosa: quando finisco di tradurre un suo libro, mi sento svuotata. Dov’è finita tutta quella gente? Mi manca l’amicizia tra Elena e Lila, in fondo sono diventata intima anche io».
Elena Ferrante potrebbe essere un uomo?
«No, impossibile. Escludo che un uomo possa capire con quella profondità i rapporti tra le donne, le loro emozioni. Uno scrittore che lavora al New Yorker, D. T. Max, ha detto che, se prima poteva anche pensare che si trattasse di un talento maschile, dopo aver letto la tetralogia napoletana non ha dubbi. È una donna».
Il suo stile è un po’ cambiato.
«Sì, ma non credo in un passaggio di mano: ritorna sempre il vissuto dell’autrice, soprattutto la sua verità emotiva».
Il successo della Ferrante e ora la traduzione di Primo Levi. È un buon momento per la cultura italiana a New York?
«Sì, mi sembra una stagione felice. È stata importante l’opera svolta da Europa Editions, la casa americana di Sandro e Sandra Ferri, che sono gli editori di e/o: oltre a Ferrante, hanno messo in circolo molti autori italiani. Così come si dà molto da fare l’Italian Academy dentro la Columbia University. E uno straordinario lavoro è stato fatto da Renata Sperandio, che dirigeva l’Istituto Italiano a New York».
A leggere il New Yorker si ha l’impressione che la cultura italiana sia ancora il Rinascimento, i grandi classici e l’alta moda. Con poche eccezioni tra gli autori contemporanei.
«Mettiamola così: per il grande pubblico l’Italia è cucina e turismo. Però per una ristretta cerchia di lettori sono importanti anche Italo Calvino e Umberto Eco. E più recentemente Andrea Camilleri: oltre alla trama poliziesca, non escludo che il pubblico apprezzi anche gli arancini di Montalbano».
Da voi c’è anche un problema di traduzione: gli editori sono abbastanza diffidenti verso la letteratura non in lingua inglese.
«Ha presente il quesito sull’uovo e la gallina? I lettori sono sospettosi verso le traduzioni. Così le case editrici — soprattutto i grandi gruppi — evitano di farle perché temono di non vendere. Ma finché non le proponi al pubblico, è impossibile creare la domanda. Per fortuna ci sono i piccoli marchi come Europa Editions, Archipelago, New York Review Books. Da giudice del premio Pen sono rimasta sorpresa dalla quantità delle loro traduzioni».
Da quale parte del mondo arrivano oggi le idee più interessanti?

«Da Internet. Sembra che ormai tutto succeda lì. Anche il New Yorker ha abbracciato questa filosofia. E sul nostro sito c’è sempre qualcosa di nuovo, di cui io non so niente».