la Repubblica, 30 ottobre 2014
La crisi della Nasa. Dopo il disastro del razzo Antares arriva l’umiliazione pubblica: ora chiede aiuto ai concorrenti russi. Tocca a Mosca spedire rifornimenti alla stazione spaziale internazionale. A quarantacinque anni dal primo allunaggio, il mito della supremazia e dell’infallibilità della bianca signora del cielo americana è crollato
Sono morti soltanto semi di crisantemo, messi a bordo da studenti di un liceo per esperimenti in orbita, nell’esplosione del razzo Antares, ma un’altra ferita segna il corpo martoriato della Nasa, già figlia adorata e oggi orfana spaziale americana.
Non è stata tragedia, la catastrofe del missile costruito da un’azienda privata, la Orbital Science Corporation, e disintegrato dopo sei secondi di volo dall’isola di Wallops sulla costa atlantica della Virginia. Trasportava soltanto rifornimenti per la Stazione Spaziale, piccoli esperimenti scientifici scelti fra i tanti proposti da studenti e forse qualche attrezzatura segreta per le comunicazioni chiesta dal Pentagono. Ma il pensiero che cinquantasette anni dopo lo shock dello Sputnik e quarantacinque dopo la fantastica rimonta americana culminata nell’allunaggio del 1969, la Nasa debba ora chiedere ai russi di spedire un loro missile, please, please, per favore e per soldi, per rifornire i cinque uomini e la donna sospesi in orbita, traccia la rotta amara di un declino.
La storia dell’assalto allo spazio extraterrestre lanciato per primi da sovietici e poi raggiunti e superati dagli americani è stata comprensibilmente costellata di fallimenti, imbarazzi, disastri e tragedie. E dove gli Usa hanno sempre dimostrato la propria supremazia rispetto ai concorrenti sovietici e oggi anche cinesi è sempre stato, prima che nella tecnologia, nel coraggio della trasparenza cercata attorno ai propri trionfi e alle proprie catastrofi, sempre la smentita più sonora agli stralunati fedeli della setta del “finto allunaggio”. Centosessantuno lanci dalle piazzole americane sono falliti, quasi sempre sotto l’occhio di telecamere e spesso in diretta, almeno fino a quando esisteva ancora un pubblico disposto a guardarli, da quel tragicomico esordio del Vanguard nel dicembre 1957. Doveva essere la risposta Usa allo sfregio del bip-bip trasmesso dallo Sputnik e si disintegrò da Cape Canaveral dopo un viaggio nello spazio di un metro e 21 centimetri.
La morte di cosmonauti, come sono chiamati in Russia, era invece tenuta accuratamente nascosta dal Cremlino, che non trasmetteva mai in diretta i lanci di missili con o senza vita a bordo e fu costretto a fatica ad ammettere la morte del primo uomo ucciso oltre i confini della Terra, Vladimir Komarov. Nascosta a lungo fu anche la straziante agonia della cagnetta Laika, il primo animale nello spazio nel 1957 uccisa probabilmente dal surriscaldamento della sua minuscola cuccia o asfissiata dalla mancanza di ossigeno dopo sei giorni di orbite, che venne tenuta nel vago fino al 2002. Il disastro di Nedelin, quando un missile intercontinentale esplose nel poligono di Baikonur nel1960 uccidendo decine di tecnici e addetti al lancio, fu custodito come un vergognoso segreto di stato fino al 1989.
Le tragedia, o i disastri tecnici, della Nasa si sono invece squadernati davanti agli occhi spesso terrorizzati di un pubblico che visse istante per istante l’odissea dell’Apollo XIII alla deriva nel viaggio verso la Luna, l’esplosione della navetta Challenger nel 1986 con i suoi sette a bordo o l’interminabile calvario della gemella Columbia, lentamente disintegrata in diretta, nel rientro, un pezzo e un astronauta alla volta, nel cielo fra il Texas e la Louisiana. Le necessità della propaganda e del duello politico internazionale, alimentate da un senso eccessivo della propria superiorità tecnologica avevano obbligato il governo di Washington e il proprio braccio aereospaziale a non nascondere nulla, o il meno possibile. Il doppio primato, ideologico e materiale, della democrazia sul regime comunista.
Il mito dell’infallibilità della bianca signora del cielo, che neppure l’Apollo XIII aveva infranto provando, al contrario, il coraggio degli astronauti e la formidabile capacità di improvvisazione del centro controllo a Houston, fu scosso dalla scoperta che il sacrificio dei sette del Challenger era stato provocato da una guarnizione difettosa e resa fragile dal freddo inaspettato della notte. La fine del programma Shuttle, definitivamente chiuso nel 2011 con il ritorno sulla Terra di Atlantis e il malinconico funerale, al traino di un pickup verso un museo, sempre in diretta, ha lasciato ora la Nasa senza mezzi propri per raggiungere la Stazione Spaziale, affidata ad aziende private, come la Orbital Space che aveva costruito l’Antares esploso, o alla Soyuz russa.
All’apogeo dello sforzo per la corsa alla Luna, negli Anni ‘60, la Nasa era arrivata ad avere oltre 400mila persone al suo servizio, fra dipendenti diretti e “contractor” di società impegnate nella costruzione di vettori e capsule. Oggi, non arriva a 60mila, con un budget di 17 miliardi di dollari, un terzo in valore reale rispetto agli anni caldi e una costante battaglia con l’Amministrazione e il Parlamento sempre più recalcitranti e disposti soltanto a mantenere il bilancio poco sotto l’inflazione, dunque a limarlo anno dopo anno.
Neppure l’essersi affidata a fornitori privati, anche in omaggio al credo conservatore secondo i quale i privati possono sempre fare meglio, e a minor costo, del pubblico, ha risparmiato alla Nasa quest’ultima umiliazione pubblica e la sicura “Schadenfreude”, la gioia malvagia per i guai altrui, dei russi, ai quali ora Washington, mentre boicotta Putin, dovrà chiedere un passaggio. Fortunatamente, soltanto cose, oggetti, alimenti, sono stati consumati nella bomba di fuoco, insieme con i crisantemi per Antares, ma torna il ricordo della frase di Alan Shepard, l’astronauta della Mercury, che rispose a chi gli domandò se avesse paura prima del lancio: «Paura no, solo un po’ di preoccupazione al pensiero di essere seduto su un missile costruito dalla società che ha offerto il prezzo più basso per produrlo».