Il Messaggero, 29 ottobre 2014
Paolo e Vittorio Taviani si raccontano in un libro di memorie. Dall’arrivo a Pisa alla scoperta dei primi film neorealisti fino alle pellicole come Un uomo da bruciare o Cesare deve morire
Anticipiamo i testi dei due fratelli registi, tratti da un volume edito da Donzelli da oggi nelle librerie che racconta una parabola esistenziale e artistica, una grande lezione per la settima arte italiana. Dall’arrivo a Pisa alla scoperta dei primi film neorealisti fino a pellicole come “Un uomo da bruciare” o “Cesare deve morire”. E una lezione: «Rivedere le pellicole preferite con amore».
Una sera ci siamo spellati le mani invocando il nome di Visconti, regista di una memorabile rappresentazione di Come le foglie. Era il 1954. L’anno dopo lasciammo Pisa per affrontare Roma, il cinema (...) al Teatro Verdi ho visto, in loggione, dirimpettaia a me, una bella inquietante giovinetta bionda, guardai più lei che lo spettacolo e dissi – non esagero – dissi: quando quella crescerà sarà mia. E fu così: era Lina Nerli, pisana che più pisana non si può essere, che poi divenne mia moglie. Mi raggiunse a Roma e insieme abbiamo lavorato nel cinema, lei costumista io regista. A Pisa mi lega anche un altro amore: la scoperta del cinema. L’abbiamo ricordato altre volte: entrammo per caso al cinema Italia – da anni non esiste più –, nella sala semivuota veniva proiettato Paisà di Rossellini. Per noi due fu una inaspettata emozione ritrovare sullo schermo quelle verità di guerra vissute pochi anni prima. Il cinema si rivelava come il mezzo più nuovo, più diretto per ricordare quell’esperienza e capirla fino in fondo. Se il cinema – ci dicemmo tornando a casa – ha questa forza, sappiamo il lavoro che faremo: il cinema. I pochi spettatori di Paisà protestavano contro quel film così anomalo. Ci alzammo per reagire a tanta ignoranza, ma ci precedette un giovane più grande di noi, un omone che, a passi pesanti, si avvicinò a quei signori e, con una certa violenza, offrì loro i soldi del biglietto per farli uscire dalla sala e lasciarci vedere quel grande film. Era Valentino Orsini. Il cinema siglò la nostra amicizia. Incontrare Valentino significò per me e Vittorio anche incontrare il movimento operaio, la scoperta della politica (...) Noi – e non solo noi, certo – consideravamo la politica uno strumento di conoscenza, un’arma per decifrare la realtà, e cercare la verità. Per Valentino incontrare noi – lo diceva sempre – significò tuffarsi nel patrimonio culturale della borghesia. Ma ci pensate – ci raccontava orgoglioso – che mia madre era soffiatrice di vetro e mio padre un abile marmista di Porta Nuova. Era un anarchico mio padre e mi volle battezzare in casa, chiamò gli amici, stappò un fiasco di vino e mi battezzò col vino.
Paolo Taviani
In quel lontano ’45, noi figli Taviani non volevamo venire a Pisa. La nostra città di elezione era Firenze. (...) Pardo Roquez, il padrone di casa, era un signore solitario, un ebreo colto, riservato e giusto. Aveva da sempre una sola ossessione: i cani, qualsiasi cane lo avvicinasse lo terrorizzava. Non lasciava mai il suo bastone per difendersi. Forse lo aveva sempre saputo: un giorno i cani sarebbero davvero arrivati e lo avrebbero sbranato. Arrivarono. E quando le SS puntarono i mitra contro di lui e la sua gente, l’uomo dai modi riservati e gentili non tacque, gridò contro di loro e la loro infamia, alzò il suo bastone e li maledisse. Ecco, questo è stato il nostro meraviglioso, terribile arrivo a Pisa. Anche per questo Pisa sta dentro la nostra vita, la nostra storia, perché qui molto abbiamo vissuto e conosciuto. Abbiamo conosciuto quella energia dirompente che dagli schermi ci disvelava il nostro paese più ignorato, più povero e ora in rivolta. Il grande cinema neorealista era insieme un evento d’arte e l’indicazione, almeno per noi, di un modo di vivere in mezzo agli altri, insieme ad altri, contro altri. Pisa e la sua gente ci vennero incontro: con il grande Valentino, con Pistelli – partigiani e rossi; con i giornali, «La Nazione», «la Gazzetta», dove cominciammo a scrivere di film; con tre giovanotti in gamba (Mario Benvenuti, siamo qui!), produttori in erba, che ci misero per la prima volta in mano la macchina da presa, una piccola, molto piccola macchina da presa, con cui girammo uno sciopero a rovescio nelle campagne ed entrammo in una fabbrica di fiammiferi occupata, inseguiti dalla polizia. Che alla fine ci portò di peso di fronte al questore di Pisa: «So che vostro padre è una persona degna; so che voi invece siete due rossi; so che volete fare il cinema. Allora attenti a quel che vi dico: voi il cinema non lo farete mai, perché noi ve lo impediremo». Lo facemmo invece, come era possibile farlo allora in provincia: documentari, piccole sceneggiature, e tanta ansia, tanta impazienza. Finché ci rendemmo conto che Pisa era stato il nostro trampolino di lancio e ora potevamo, dovevamo partire per Roma...
Vittorio Taviani