Corriere della Sera, 29 ottobre 2014
L’Expo e l’’ndrangheta. Uno dei lavori legati all’evento del 2015 era finito alla società appartenente a un ergastolano. Altri 13 arresti tra Lombardia e Calabria
C’è l’auto privata di un vigile urbano che viene bruciata per ritorsione perché, quando l’agente nel suo lavoro aveva fermato al volante il nipote di un boss di ‘ndrangheta, gli aveva così indirettamente fatto perdere un beneficio carcerario: solo che succede non a Locri, ma a Giussano, Brianza.
C’è la direttrice di un carcere che riceve tre proiettili e finisce sotto scorta perché, facendo un rapporto disciplinare a un detenuto che così aveva perso l’agognato trasferimento in un penitenziario calabrese, ha molto irritato quella «famiglia» mafiosa: solo che il carcere non sta nel profondo Sud, ma è quello di Monza.
C’è una società di scavi che, con la sua bella certificazione antimafia, ottiene da una impresa di Modena un subappalto da 400.000 euro non proprio di «Expo 2015», ma pur sempre in un cantiere della costruenda «Tangenziale Est Esterna Milano»: solo che la società edile è di un ergastolano di ‘ndrangheta, che ai parenti aveva poco prima raccomandato di dare una rinfrescata alla facciata dei teorici soci «puliti», evidentemente sufficiente ad aggirare i controlli amministrativi.
E c’è un consigliere comunale del Pd (non fattosi mancare un giro in Forza Italia nel 2002, un passaggio nell’Udeur nel 2006 e un transito nell’Ulivo nel 2007) che opera affinché il piano regolatore muti la destinazione urbanistica di un’area sulla quale una cosca aveva investito 300.000 euro di provenienza illecita: solo che il Comune non è uno dei tanti infiltrati dai clan in Calabria, ma è Rho, e il politico in passato era stato pure nel cda della società che gestisce il servizio del ciclo idrico di molti Comuni della Provincia di Milano.
Non ci sono arresti eclatanti o maxisequestri nell’operazione che ieri conduce o (in molti casi) riporta in carcere 13 persone ruotanti attorno alla famiglia di Antonio e Fortunato Galati, 62 e 36 anni, stanziatasi nel territorio comasco di Cabiate come ramificazione in Lombardia della cosca calabrese dei Mancuso di Limbadi. Ma l’indagine dei carabinieri del Ros del generale Mario Parente, coordinati dal procuratore aggiunto milanese Ilda Boccassini con i pm Francesca Celle e Paolo Storari, è di quelle che, a loro modo, misurano la temperatura di una «febbre» nel Nord Italia tante volte denunciata, ma altrettante volte ignorata. Al punto che ieri il pm Boccassini additava il rischio di doversi ridurre a pensare che «nulla cambia, è questa la riflessione da fare».
Tra gli arrestati — accanto ad esempio ai Galati, al consigliere comunale di Rho Luigi Calogero Addisi,o all’imprenditore mantovano Franco Monzini — in effetti figura un personaggio che come Salvatore Muscatello, condannato a 17 anni per associazione mafiosa, capo della «locale» di Mariano Comense, aveva trasformato i propri arresti domiciliari in una sede di rappresentanza dove ricevere chi veniva a domandare un aiuto per i parenti in carcere, un razione di violenza per un recupero crediti, un appoggio per una carica interna all’organizzazione.
Su tutta una pletora di persone individuate come vicine ai clan, ma per le quali non erano nitidi i confini di una contestazione penale, i pm hanno scelto di non forzare (come altrove) l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, ma di procedere con la richiesta di misure di prevenzione (al Tribunale di Como per competenza territoriale) per sottoporre a sorveglianza speciale agenti di polizia penitenziaria, funzionari dell’Agenzia delle Entrate, ex consiglieri comunali, imprenditori, consulenti finanziari, bancari: un «capitale sociale» di persone «prive di rilevanza penale», ma «essenziali per l’esistenza e il rafforzamento dell’associazione, permettendole di moltiplicare la forza di espansione e di penetrazione del sodalizio criminale».