Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2014
D’Alema a muso duro contro Renzi: «Così spacca il Paese. Vuole la rottura con il sindacato. Una scissione nel Pd sarebbe un errore. La Merkel è l’unico leader con una visione europea
Presidente D’Alema, c’è chi parla di una Bad Godesberg italiana a proposito della Leopolda di Renzi. Anche a lei in passato è stata attribuita più di una svolta riformista. Oggi però è annoverato tra i conservatori. Dove ha sbagliato?
«Credo sia semplicemente una raffigurazione falsa. Un’offesa a una verità storica. È grottesco che si dipinga il centrosinistra italiano come un mondo che ha atteso Renzi per scoprire il riformismo. I nostri governi, a partire dal governo Amato, e poi dal governo Ciampi, dal governo Prodi, compreso il mio, vengono ora raffigurati come quelli della conservazione, ma noi abbiamo cambiato il Paese in profondità».
Converrà che c’è molto da fare...
«Guardi, io spero che Renzi riesca a fare riforme all’altezza delle promesse. Per ora vedo soltanto molti annunci. E uno stile di governo preoccupante che punta a creare fratture nella società».
Renzi ha detto che con il sindacato non si tratta, al massimo lo si ascolta e poi si decide.
«Appunto. Nel modo in cui vengono affrontate queste cose emerge una volontà di rottura con il sindacato che è sbagliata».
Anche lei si scontrò con la Cgil...
«Ma io non ho mai usato quei toni, non ho mai detto "non vi prendo in considerazione", "più mi criticate più guadagno consenso". Questo modo di fare spacca il Paese, prima ancora che il Pd. Vengono usate parole sprezzanti verso i magistrati, verso i funzionari pubblici. Sull’articolo 18 si è condotta una polemica tutta ideologica. Il rischio è quello di avere un Paese incattivito. Mentre da questa crisi si esce solo se si torna a un minimo di concordia».
Non che lei non fosse sferzante. E sull’articolo 18 fu lei a proporre, scontrandosi con il sindacato, il superamento di quella tutela nelle imprese che superavano la soglia dei 15 dipendenti...
«C’era un problema di disincentivo alle imprese a crescere. Io proposi, allora, che quelle aziende che superavano i 15 dipendenti potessero avvalersi temporaneamente della normativa precedente. Il senso non era eliminare l’articolo 18, ma estenderlo, ovviamente in modo progressivo e non automatico ai lavoratori che prima non avevano quella protezione».
Il sindacato però vi bloccò.
«Il sindacato si oppose prendendo una posizione sbagliata. Sarebbe cresciuto il numero dei lavoratori tutelati. Adesso si sta cercando di fare una cosa molto diversa. Una battaglia tutta ideologica. Si è detto "non esiste più il posto fisso". Ma questo è noto da venti anni. Da allora sono state fatte varie riforme del lavoro. E ora il problema è l’eccesso di precarietà, non il contrario. È lo stesso governo, giustamente, a sostenere che la filosofia del Jobs Act è quella di promuovere un numero maggiore di contratti a tempo indeterminato. Quindi, evidentemente, anche per Renzi il posto fisso è un valore positivo».
Il problema è che oggi il contratto a tempo determinato è troppo rigido per l’impresa e quasi nessuno assume più con quel tipo di contratto. Va reso più conveniente. Non è un caso se oggi l’85% dei lavoratori viene assunto con contratti non a tempo indeterminato.
«Lo so. Infatti abbiamo introdotto già molti anni fa politiche per incentivare l’uso di quel contratto attraverso bonus fiscali».
Non hanno funzionato granché se il dato è quello che le dicevo.
«Purtroppo la storia delle politiche sul lavoro non è lineare, dopo di noi ci sono stati altri governi. C’è stato il governo Berlusconi che ha puntato sui contratti più precari. Ma all’inizio quegli incentivi avevano funzionato».
Il contratto a tutele crescenti può essere una soluzione?
«Può esserlo. Ma vedo due contraddizioni nel progetto di Renzi. La prima l’ha sollevata Tito Boeri: gli incentivi nei primi tre anni, se sommati alla possibilità di licenziare, possono portare ad abusi e aumentare la precarietà. La seconda riguarda proprio l’articolo 18. Nella delega non se ne parla. E anche Renzi all’inizio non sembrava intenzionato a toccarlo. Poi ha cambiato idea. Il vero problema è che mentre i lavoratori più anziani possono ottenere dal magistrato la reintegra, ciò non sarà possibile per i lavoratori più giovani, assunti con i nuovi contratti. In questo modo si renderà stabile una diseguaglianza, altro che legge a favore delle nuove generazioni. Ho sinceramente dei dubbi che questa differenza di trattamento sia costituzionalmente accettabile. Tra l’altro, sull’articolo 18 già abbiamo votato la riforma Fornero. Abbiamo già cambiato, non senza un confronto aspro con i sindacati. È una riforma che ha un anno e mezzo di vita. Valutiamo gli effetti di quella riforma, tanto più che i primi segnali sono positivi, nel senso che c’è una forte riduzione del ricorso alla magistratura».
Si ipotizza, nell’ambito del contratto a tutele crescenti, che l’articolo 18 arrivi solo dopo un certo numero di anni. Almeno questo è accettabile per lei?
«Sì, questo si può fare. Ma nel senso che dopo un periodo di prova, scatta l’assunzione a tempo indeterminato e quindi le tutele che ne derivano».
Cosa succederà in Parlamento sul Jobs Act. Parte del Pd si sfilerà?
«Non lo so. Io non sono in Parlamento. Come ho detto trovo stravagante che si parli di articolo 18 e poi si voti una delega dove di articolo 18 non c’è traccia».
D’Alema non possiamo ignorare che siamo in una crisi profondissima. Se non si renderà più conveniente per le imprese assumere e investire, difficilmente vedremo una ripresa.
«Sono d’accordo, ma allora parliamo dei temi veri del riformismo. Oggi la priorità è risollevare la produttività del lavoro e in questo senso credo che dovremmo aprire una discussione seria sul decentramento dei contratti. I sindacati andavano ingaggiati su questo. È qui che ci differenziamo davvero dalla Germania, è qui che i tedeschi ci battono».
Che giudizio dà di questa legge di stabilità?
«Si conferma l’orientamento verso le politiche di austerità, ma si ottiene uno sconto. Questo è il senso di quanto sta accadendo. Figurarsi, lo sconto va bene ma certo non c’è un cambio di logiche, non c’è la svolta auspicata. Non è colpa di Renzi. È che in Europa manca il cambiamento necessario verso la crescita. Si è capito che il fiscal compact non si può applicare, questo è positivo. Ma anche sugli investimenti l’impegno dei 300 miliardi annunciato da Juncker è troppo modesto e troppo vago, come ha osservato oggi anche Romano Prodi, che ha sottolineato la differenza tra l’impegno americano per la ripresa e la scarsa rilevanza di quello europeo. Sono completamente d’accordo con lui».
Renzi poteva ottenere di più in Europa?
«Diciamo che finora si è manifestata una notevole debolezza del campo delle forze socialiste. Merkel non ha vinto le elezioni, ma ha decisamente vinto il dopo-elezioni. Ha dimostrato di essere l’unico leader che ha una visione europea».
Non sarà diventato un ammiratore della Merkel?
«Lei si è mossa come il vero capo dei conservatori europei. Non ha rivendicato poltrone per i tedeschi, non ha puntato a un risultato facile per ottenere il plauso di qualche giornale di casa, ma ha di fatto blindato intorno ai conservatori tutte le posizioni chiave della nuova Europa. Va ammirata la sua qualità di leader politico, anche se opera per finalità che non condivido».
Si dice che lei abbia cambiato atteggiamento verso il premier perché lui non ha mantenuto il patto che prevedeva per lei la nomina a rappresentante della politica estera europea...
«Se uno dovesse litigare con Renzi perché lui viene meno alla parola data, la lista dei litiganti sarebbe infinita. No, io vivo felice, non ho problemi di carattere personale. Discuto del merito delle questioni».
Il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil ha ancora senso?
«No, non ha senso. Credo che si dovrebbe ricorrere a una golden rule per tutti gli investimenti che producono occupazione e innovazione. E nello stesso tempo bisogna ricorrere a forme di mutualizzazione del debito».
I tedeschi non ci sentono.
«Però una proposta in questo senso era venuta proprio dal consiglio degli economisti tedeschi».
Parliamo di legge elettorale. La convince il premio alla lista?
«La legge elettorale è un pasticcio. Inoltre, a mio parere presenta evidenti problemi di incostituzionalità su diversi punti cruciali, anche in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale. Il premio al partito sarebbe un passo avanti, ma non ho capito se Berlusconi lo accetterà».
Non le piace neppure la riforma del Senato...
«Mi chiedo verso quale bicameralismo stiamo andando. Da una parte deputati nominati dai capi partito, dall’altra senatori nominati dai consigli regionali. Dico: ci vorrà pure qualcuno eletto dai cittadini o no? Non mi sembrano grandi riforme».
Sono punti qualificanti dell’azione di governo su cui una parte del Pd, come lei, non è d’accordo. Si parla insistentemente di scissione all’interno del partito. La ritiene plausibile?
«No, sarebbe un errore. Bisogna battersi nel Pd per le idee e i valori in cui crediamo. Naturalmente dobbiamo prendere atto che questo partito è diverso da quelli che abbiamo conosciuto fino ad oggi e quindi dobbiamo fare come fa Renzi, il quale all’interno del Pd si è organizzato senza farsi tanti problemi, neppure in rapporto alla sua funzione di segretario. Se non si vuole una scissione silenziosa, fatta di tante persone che non rinnovano la tessera, si deve rendere più visibile e incisiva la presenza delle posizioni autenticamente riformiste».
Nei prossimi mesi questo Parlamento potrebbe essere chiamato a eleggere il nuovo capo dello Stato, le prove che si sono fatte con i giudici costituzionali non sono tranquillizzanti.
«Penso che i tempi siano maturi per individuare una personalità femminile. Non è un vincolo assoluto, e il capo dello Stato va sempre scelto per le sue caratteristiche di autorevolezza, ma volgerei certamente le attenzioni a una donna che possa essere anche una figura di garanzia. Ce ne sono. E con un Paese che tende a spaccarsi ce ne sarà molto bisogno».