il Giornale, 29 ottobre 2014
Non scandalizzatevi per il presunto patto tra Stato e mafia. Dai sequestri De Martino e Cirillo ai rapimenti di Mastrogiacomo e Sgrena: i negoziati con camorra, Br e terroristi islamici hanno consentito di evitare spargimenti di sangue
Esiste uno Stato immaginario che non si piega e non scende a patti, e anche nei momenti più difficili preferisce affrontare le conseguenze più tragiche anziché trattare col nemico. Ed esiste poi uno Stato reale che ufficialmente fa la faccia feroce ma sotto traccia incontra, dialoga, si aggiusta. Che promette, e a volte mantiene. Che riceve promesse, e quasi sempre qualcosa incassa. Se davvero - perché di questo in fondo si tratta - qualcuno ha trattato con Cosa Nostra la consegna di Totò Riina, beh, non sarà stata né la prima né l’ultima volta che il do ut des ha fatto la sua silenziosa comparsa nella guerra tra Stato e antistato.
Il catalogo è lungo e ricco, e appartiene in buona parte alle cronache del terrorismo: quello domestico, all’epoca della furia omicida delle Brigate rosse e dei loro epigoni, quanto quello islamico in giro per il mondo. Ma non è che le vicende del crimine organizzato non portino anch’esse traccia di accordi sottobanco: nella sentenza d’appello ai calabresi che nel 1997 rapirono a Milano Alessandra Sgarella, una piccola nota a piè di pagina dà atto che a un boss in carcere vennero promessi benefici penitenziari in cambio delle sue pressioni per la liberazione dell’ostaggio. Si poteva fare, non si poteva fare? Si fece e basta, e la Sgarella tornò a casa dopo quasi un anno di terribile prigionia. Non fu, giurano gli addetti ai lavori, l’unica volta che un sequestro dell’Anonima si risolse così. D’altronde esiste un precedente storico anche se poco esplorato, il memorabile sequestro di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi, rapito nel 1977 dalla malavita napoletana e rilasciato dopo una colletta tra banche, partiti, servizi.
Nei rapporti con il terrorismo di ogni risma ed etnia, la trattativa sotterranea è invece - almeno in Italia - una prassi e quasi un’arte, spesso esercitata quasi alla luce del sole. A partire dal caso più noto e peggio concluso, quando intorno al sequestro del presidente democristiano Aldo Moro sorse addirittura un «partito della trattativa» che agiva per pubblici proclami senza che nessuno si indignasse o aprisse inchieste; e persino gli emissari della trattativa nel fronte brigatista avevano nomi e cognomi di pubblico dominio, e pubblicamene discusse se erano le possibili contropartite alla liberazione di Moro. Poi finì come finì, ma nessuno finì sotto inchiesta per avere cercato di salvare Moro. Nessuno venne incriminato per avere trattato sottobanco con frange di brigatisti la consegna di James Lee Dozier, il generale americano sequestrato subito dopo Moro.
Si indagò, invece, ma senza quagliare granché, sulla più spudorata delle trattative, quella che portò alla liberazione dell’assessore napoletano Ciro Cirillo, sequestrato anche lui dalle Brigate Rosse, e tornato a casa dopo che per salvarlo si era mosso una specie di circo fatto di agenti segreti, politici, imprenditori, tutti a baciare la pantofola di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata che nel supercarcere dove era richiuso riceveva visite una dopo l’altra. Il pasticcio era tale che qualche anno fa Cirillo, ormai ottuagenario, disse di non voler raccontare nulla fino alla morte. «È tutto scritto in un memoriale da un notaio».
Ma dove la decisione di scendere a patti è stata una costante, tanto notoria quanto inconfessata, è quando l’Italia si è trovata a fare i conti con il terrorismo islamico: una prassi così costante da suscitare l’indignazione degli alleati e della loro intelligence, ma resa inevitabile dalla commozione con cui vengono seguiti i casi dei nostri connazionali rapiti qua e là per il mondo. Per i poveri Quattrocchi e Baldoni, rapiti e ammazzati in Irak, per allacciare una trattativa mancò il tempo, non la volontà. Da allora in poi, è quasi incalcolabile il fiume di fondi riservati dei servizi segreti finiti nelle tasche della jihad pur di riportare in patria i malcapitati.
Si racconta che la telefonata a casa che i rapitori concessero a Domenico Quirico, l’inviato della Stampa sequestrato in Siria, sia costata all’erario una robusta bolletta. E cifre ben maggiori sono servite per ottenere il rilascio delle due Simone, la Pari e la Torretta, sequestrate nel 2004 a Baghdad, o dell’inviato speciale di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Qualche dettaglio emerse a margine della vicenda finita tragicamente della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena: il 4 marzo 2005 un funzionario del Sismi consegnò a un emissario dei rapitori il riscatto, in Kuwait o negli Emirati Arabi. L’emissario diede il via libera, a Baghdad la giornalista venne liberata e consegnata a un’altra squadra del Sismi. Ma sulla strada per l’aeroporto l’auto dei nostri 007 fu attaccata per errore da un posto di blocco degli americani, nell’uragano di colpi il capodivisione Andrea Calipari perse la vita, il suo collega Andrea Carpani venne centrato al petto, anche l’autista venne sfiorato, e solo la Sgrena uscì miracolosamente incolume. Nonostante lo choc e le polemiche, neanche i retroscena di quella trattativa sono mai stati ufficialmente resi noti. La sostanza è che si tratta, da sempre. E forse anche nel 1992, quando magistrati e poliziotti venivano fatti saltare in aria col tritolo insieme a interi tratti di autostrada, ci fu chi decise di tastare gli umori dell’altra parte, e non arretrò inorridito quando la testa di Riina venne offerta in cambio di questa o quella concessione.