il Giornale, 29 ottobre 2014
Al Sud nel 2013 sono stati più i morti che i nati: solo 177 mila i bambini, il dato peggiore dal 1861. E aumenta la povertà È uno tsunami, così in 50 anni rischiamo di avere 4,2 milioni di italiani in meno
Anche la grande nursery d’Italia entra in stato di crisi. Chiari segnali di sterilità. Le sommarie sensazioni adesso sono dati certi: come annuncia l’ultimo rapporto Svimez, nel 2013 i nati al Sud sono meno dei morti. Già era successo nel 1867 e nel 1918, annate eccezionali di fame e di guerra. E già in formato ridotto era capitato pure nel 2012. Ma nell’ultimo anno è record assoluto: solo 177mila bambini, mai numero così ridotto dal 1861, cioè quando neonata era l’Italia stessa.
La tendenza ormai è chiara, magari irreversibile: sempre peggio. Il Sud non è più il generoso ventre del Paese. Le previsioni a lungo termine assumono addirittura contorni apocalittici: «L’area sarà interessata da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, perdendo 4,2 milioni di abitanti nei prossimi cinquant’anni, arrivando così a pesare per il 27 per cento sul totale nazionale, contro l’attuale 34,3».
Molto si potrà e di dovrà discutere sulle cause del fenomeno, certo legate indissolubilmente ai morsi della crisi economica. Ma nessun dibattito, neppure il più intelligente, potrà evitare l’unica conclusione acclarata: il Sud ha smesso di figliare, il Sud non è più lo straordinario produttore di mano d’opera che sin qui ha tenuto in piedi gli equilibri del sistema. Per generazioni e generazioni, proprio a partire dall’età unitaria, i figli scodellati dalle generose mamme meridionali si sono caricati la valigia sul treno e sono partiti. Certe volte proseguendo per la tangente e raggiungendo i luoghi più remoti del mondo, altre volte accalcandosi eccessivamente dove il lavoro non bastava per tutti. Ma sempre, tra frequenti storture e alienanti degenerazioni, questo gioco di vasi comunicanti ha comunque fatto la fortuna dell’Italia nel suo insieme. Soprattutto nel secondo Dopoguerra, epoca ruggente del boom.
Non è più così. Non sarà più così. Il Sud stesso sta subendo profondissime mutazioni. Uscendone stravolto. La rivoluzione silenziosa vede i giovani formati cercare ad ogni costo l’opportunità lontana, quasi sempre lontana dall’Italia, mentre da tutte le fessure dei nostri sgangherati confini s’insinuano i nuovi residenti. Legalmente o abusivamente, ci piaccia o no, gli italiani d’importazione utilizzano il Sud come grande banchina di sbarco. E in tanti si fermano. Non servono i rilievi degli statistici per rappresentare l’entità del cambiamento. Basta viaggiare tra borghi e contrade, chiunque se n’è già accorto a occhio nudo. L’Italia nera, l’Italia esotica, l’Italia altra, è qui nelle nostre città e nelle nostre campagne. Stabilmente. Per sempre.
Troppo facile a questo punto guardare dall’alto e dal di fuori l’Italia di domani, tra venti o trent’anni. Alla rivoluzione silenziosa bastano tempi molto brevi. Era solo il 1988 quando i primi sbarchi precipitarono improvvisamente Lampedusa nel suo nuovo e impensato destino. Venticinque anni dopo, stiamo già parlando di cambiamento epocale. Di un’altra Italia, che non figlia più di suo e che si ripopola con i nuovi ospiti. Così sarà tra venticinque anni: certamente riparleremo di un’altra Italia ancora. Quelli che adesso sono marker improvvisi di una situazione inattesa saranno a quel punto fenomeni stabili di una diversa società, venata di nuove lingue, nuovi colori, nuovi costumi, nuove religioni. E loro, i piccoli italiani dell’immigrazione di prima generazione, nati in questi anni, saranno uomini fatti e cittadini a pieno titolo. Questo è sicuro. Alla lunga, finiranno per dimenticare persino la lingua, le usanze, magari pure le religioni d’origine. È inevitabile, succede a tutti i figli di tutti gli emigranti di tutte le aree del mondo. Conserveranno un legame affettivo e malinconico con la terra degli avi, ma sarà solo una questione sentimentale. Nel concreto, compenseranno la nostra sterilità, forse sarebbe meglio dire le nostre paure e la nostra rassegnazione, con la voglia di credere e di crescere in un Paese comunque indicibilmente bello e ospitale, molto migliore dei suoi limiti, dei suoi vizi, delle sue meschinità. Dei suoi indigeni.
Da qui ad allora, ci aspetta un grande lavoro. A loro spetta il dovere di capire e rispettare il nostro modello di Italia. A noi accettare l’idea che questa rivoluzione silenziosa, gestita senza stupidi buonismi e becere fobìe, potrebbe persino rivelarsi niente male.