il Giornale, 28 ottobre 2014
La vecchia sinistra vale poco. Solo un quarto degli elettori democratici potrebbe seguire Bersani & Co. Spiega Nicola Piepoli, fondatore dell’omonimo istituto: «Al momento non hanno un leader, e si fatica a vederne uno e poi la base Pd non vuole scissioni. Abbiamo sondato l’elettorato di centrosinistra e la risposta è stata questa»
«Non si fa un partito sommando i rancori» dice l’(ex) big del Pd bersaniano, oggi rintanato tra i giovani turchi a metà strada tra Renzi e i «reduci», o le «statue di cera» del Pd, come li chiama affettuosamente il premier. Ma quanto varrebbe la vecchia ditta, la sinistra Pd di Bersani, Fassina, Cuperlo e connessi una volta scissa? I sondaggisti, scienziati del probabile, invitano a non essere troppo certi del decesso politico. «Un partito della sinistra Pd? Potrebbe valere tra l’8% e il 10% - spiega Nicola Piepoli, fondatore dell’omonimo istituto -. I problemi veri sono due. Al momento non hanno un leader, e si fatica a vederne uno. Secondo, la base Pd non vuole scissioni. Abbiamo sondato l’elettorato di centrosinistra e la risposta è stata questa». Se può sembrare ottimistica la stima, anche la Demos di Ilvo Diamanti calcola la stessa porzione di spazio politico per gli antirenziani del Pd, usando un altro parametro: il gradimento per la Cgil. Nelle rilevazioni, sono il 25% di elettori Pd quelli che si sentono vicini al sindacato della Camusso (andato in piazza per una contro Leopolda). Se si prende come base il 40% del Pd alle Europee, significa che quest’area vale un quarto di quella percentuale. Appunto il 10%.
Una proiezione matematica, un algoritmo che potrebbe però schiantarsi nella realtà. Un politologo come Gianfranco Pasquino la vede complicata: «Con una scissione non andrebbero molto lontano.... Perché gli scissionisti dovrebbero trovare alleati o andare con i grillini, cosa che per loro è culturalmente impraticabile». E da soli sarebbero non autosufficienti, specie con una legge elettorale maggioritaria (soglia all’8%). Anche la parabola di Sel, negli ultimi mesi, non depone a favore degli ottimisti. Il partito di Vendola supera a fatica il 2%, mentre pezzi di Sel migrano alla corte di Renzi. Indizi che rendono il pensiero della scissione, onnipresente (Fassina: «La scissione è in atto», Orfini: «Il rischio c’è»), fonte di turbamento per il Pds (il Pd di sinistra). Chi medita azioni, oltre al rancore, è Massimo D’Alema, il rottamato per eccellenza. Dal Pd filtrano rumors su un certo attivismo dell’ex premier, mentre un’indiscrezione raccolta dal Foglio racconta di un incontro tra un autorevole esponente della sinistra radicale e D’Alema, che così avrebbe chiuso il rendez-vous: «A questo punto potremmo anche fare un partito insieme». Una battuta, ma chissà. Le finanze per l’operazione Pd-s ci sarebbero, chiuse a chiave nelle fondazioni-cassaforti degli ex Ds, una sessantina in tutta Italia (immobili, società, liquidi...). Custodite dal senatore antirenziano Ugo Sposetti, che per primo, tempo fa, previde la perturbazione in arrivo («Se Renzi vince il Pd non regge e si divide»), ma che - riferisce chi conosce bene il tesoriere Ds - non sarebbe mai disponibile a quest’operazione. Ma il leader, chi sarebbe? Bersani, Cuperlo, Fassina o lo stesso D’Alema, è difficile immaginarseli in quel ruolo, com’è pure improbabile vederli al seguito di un Landini. Lontano dai riflettori, invece, si costruisce una leadership alternativa, interna al Pd. Così lontano dai riflettori che il Pd ha provato a nasconderla. Nel sondaggio che boccia Marino c’è anche che Nicola Zingaretti, governatore Pd del Lazio, batte Renzi nel gradimento dell’elettorato Pd romano. Sarà lui l’anti-Renzi del Pd-s? Un mistero degno del commissario Montalbano.