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 2014  ottobre 27 Lunedì calendario

Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri, ovvero il poeta e il donnaiolo. Chi era l’amico inseparabile degli ultimi anni di Giacomo, e qual era la natura del loro contraddittorio rapporto? L’analisi in un libro di René de Ceccatty

Che cosa capiva, che cosa poteva capire di Giacomo Leopardi l’uomo che gli è stato più vicino negli ultimi anni, Antonio Ranieri? La vicinanza illumina o acceca? L’amore può fare a meno del troppo capire? E di conseguenza, chi era davvero Ranieri? Nel suo film Il giovane favoloso Mario Martone ne offre un ritratto sostanzialmente benevolo; gli dà almeno un sette in pagella l’italianista francese René de Ceccatty nel suo Amicizia e passione: Giacomo Leopardi a Napoli, ora tradotto dalla Archinto per le cure di Piero Gelli, dove sin dal titolo si ipotizza che fosse proprio il fuoco d’un acceso sentimento a tener vivo il rapporto.
Forse non era proprio passione, ma la somma di due fragilità. È una coppia stranissima quella che si forma nei salotti di Firenze nel 1830. Da una parte un genio trentenne assetato di riconoscimenti e affetti che riesce a fuggire dal carcere famigliare di Recanati per la generosità di estimatori toscani, ma non riesce a trovare un’occupazione con cui sostenersi. Dall’altra lo squattrinato ventiquattrenne napoletano, biondo, aitante, piacione, vanitoso, estroverso, gran femminiere, che si dà arie da viaggiatore internazionale ed esule politico. Quando Giacomo si dispera all’idea di tornare a Recanati per mancanza di soldi, gli offre aiuto e solidarietà, pur essendo precario quanto lui. Non lo lascerà più, stupefacente ibrido tra un amico ultradevoto, una groupie entusiasta, un apprendista manager e una badante multitasking. All’ombra di un angoscioso sfarfalleggiare di cambiali, si sviluppa un «romanzo» che avrebbe avuto bisogno del genio analitico di Proust, un «Du côté de chez Antoine» capace di scandagliarne le ambiguità. Un ménage molto chiacchierato, in cui però le eventuali latenze omosessuali non hanno la parte che si potrebbe superficialmente ipotizzare.
Di certo i due risultano perfettamente complementari. «Totonno» accantona le disordinate avventure amorose e conduce l’amico a Napoli come alla città che può migliorarne la salute e garantirgli la fama che merita. A sua volta, «Muccio», bisognoso di devozione, è incantato dall’agilità animale con cui l’altro si muove nel mondo. S’accontenta di una vita amorosa anche per interposta persona, come nei transfert adolescenziali. Se a Firenze Fanny Targioni Tozzetti, «angelica beltade», manco s’accorge dei suoi spasimi, ma accoglie nel suo letto Totonno, quando questi non c’è si acconcia a fare persino il suo Leporello: «La Fanny è più che mai tua e ti saluta sempre… Ella ha preso a farmi di gran carezze, perché io la serva presso di te: al che sum paratus».
Non ha mai goduto di buona stampa, Ranieri. Messe a frutto le passioni politiche di gioventù, fattosi storico, poi deputato e senatore, nel 1880 pubblica, a più di quarant’anni di distanza dai fatti, un memoir, inaffidabile come tante autobiografie, intitolato I sette anni del sodalizio con Giacomo Leopardi, che nessuno era in grado di contraddire. È stato per lo più considerato un’indiscrezione non proprio elegante, che rivelando le miserie dell’uomo mortificava la grandezza dello scrittore; e l’autocelebrazione di una generosità di cui peraltro gli faceva credito anche Fanny. Considerava Giacomo addirittura un «camorro», cioè un tipo noioso e malsano, un peso morto, un «grande inciampo nel cammin della vita» del bell’Antonio.
Gli eccessi verbali di cui traboccano alcune lettere fiorentine di Giacomo («sola e unica speranza», unica «causa vivendi», «fratello e unico amico») risalgono a quando l’amico si allontanava dalla città, e sono piuttosto il grido d’un bambino abbandonato. A Napoli, dal 1833 al fatale giugno 1837, quando il ménage si stabilizza, Giacomo diventa un partner bizzoso e incontrollabile, un malato difficile. Scambia il giorno per la notte, fa colazione alle tre e cena a mezzanotte, si ostina a uscire da solo, chiacchiera con soggetti imbarazzanti, si strafoga di dolci, gelati, sfogliatelle, si crea un complice nel cuoco di casa Ranieri, con cui elabora una cinquantina di ricette. Una imprevedibile deriva esistenziale.
Napoli poteva anche essere, come scrive al padre nel 1835, una città di «lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e baroni fottuti, degnissimi di spagnuoli e di forche», la capitale della mariuoleria. I suoi circoli culturali deridevano «l’umor misantropico» del «ranavuottolo», gli ambienti clericali avevano bloccato la pubblicazione delle Operette morali come incitamento alla sovversione dei pubblici costumi. Lui se ne vendicava facendo un «triste governo» (così Ranieri) di certi libri avuti in dono e usati per le pratiche igieniche della mattina.
Ma Napoli era anche espressione di una coinvolgente alterità: una città-calderone, viscerale, inscindibile dalla sua dimensione teatrale, pantagruelica nella sua ossessione del cibo, insieme trasgressiva e bigotta. L’ipercerebrale Leopardi la esplora con la voluttà di chi vorrebbe far sua quella carnalità così esibita, se ne lascia inghiottire con delizia. Fattosi flâneur, ascolta i suonatori ambulanti di Chiaia, si riempie gli occhi dei banchi del pesce a Mergellina, distribuisce numeri al banco del lotto, incurante degli scherni. Se non è la «felicità del sughero abbandonato alla corrente» di cui parla Montale, è qualcosa che ci assomiglia. «Neghittoso e immobile giacendo», scopre che «il beneficio del corpo» non è inferiore a quello dell’anima.
Nel cuore di un inverno di gelo e solitudine a Torre del Greco, sulle pendici dello «sterminator Vesevo», riesce a produrre alcuni tra i suoi testi più alti, si china con pietà sugli esseri umani vittime dell’«empia Natura», deride le «risibili congiure» dei liberali (tra cui rientrava l’amico Totonno) e scaglia i suoi fulmini contro gli idoli illusori di una falsa modernità. Le gazzette diventeranno gli unici fari di cultura, «ferrate vie, molteplici commerci», macchine a vapore «al cielo emulatrici», il nuovo Eldorado americano riempiranno il mondo di merci che non aggiungeranno «nemmeno un atomo alla massa della felicità umana». Vincerà sempre la forza, «ardir protervo e frode / con mediocrità, regneran sempre».
Quel che getta una luce retrospettiva quantomeno sospetta su Ranieri è l’essersi vantato d’aver sottratto il corpo dell’amico morto all’umiliazione delle fosse comuni, obbligatorie per tutti in tempi di colera dilagante, dopo aver coinvolto un ministro, corrotto un parroco con un cesto di pesce e i doganieri di Piedigrotta con un po’ di ducati. L’apertura della cassa nel 1900 sembra smentirlo: c’è sì un lembo del famoso soprabito verde scuro, ma mancano la testa e il torace, ci sono solo due femori non riconducibili a quelli del defunto. Forse l’ultima napoletanissima messa in scena l’aveva montata proprio il caro, devoto, irrinunciabile Totonno.