Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 27 Lunedì calendario

Adriano Panatta racconta la sua carriera, la sua vita privata, la fine della dolce vita, la sua amicizia con Paolo Villaggio, e quella volta speciale a Wimbledon: «Ho perso tutte le mie coppe ma non me ne frega niente»

Adriano Panatta ha perso tutti i suoi trofei. Tutti. «E lo sa? Non me ne frega niente, di quelle coppe». Eppure allora godeva di quelle vittorie, eccome. Oggi a sessantaquattro anni si è scrollato di dosso il tennis, meno la fama di viveur, lui che è sposato da quasi quarant’anni con la moglie Rosaria e ha tre figli ma ancora quest’estate ha fatto parlare di sé e di una avvocatessa di Treviso, finendo sulle pagine dei quotidiani del Nord Est e non solo.
E avrà anche chiuso con la dolce vita, «vado a letto presto, sono tranquillissimo», ma negli anni Ottanta ne è stato un protagonista, lui così amato dal pubblico e dalle donne, in giro per l’Italia e per il mondo, circondato da amici famosi, dello sport e del cinema. Sono gli anni che racconta nel suo libro, appena firmato con Paolo Villaggio, Lei non sa chi eravamo noi (Mondadori).
Chi eravate voi?
«Bisogna pensare a quegli anni, venivamo da tempi terribili, il buio del ’74-’75. Dopo gli anni del terrorismo, gli Ottanta erano un po’ quelli del cazzeggio: c’era voglia di leggerezza, e quando ci incontravamo pensavamo a divertirci. Però sempre in modo sereno, non c’era volgarità».
I suoi amici dell’epoca?
«Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi. Meravigliosi».
Che cosa hanno in comune Panatta e Villaggio?
«Niente. Non sappiamo neanche come siamo diventati amici: è successo, all’improvviso. Paolo mi piace perché è un genio per intelligenza, cultura, ironia».
Dove vi siete conosciuti?
«Lui dice a Montecarlo, io a Cortina. Non ci ricordiamo bene: era la fine degli anni Settanta, giocavo ancora».
Nelle vostre avventure c’era anche Tognazzi.
«Esilarante. Quando era in forma, non c’era nessuno di più divertente».
E Gassman. Non era in soggezione con lui?
«Tutti eravamo in soggezione. Perché, come dice Paolo, lui è Gassman: si veste da Gassman, parla da Gassman, si muove come Gassman. Avevamo sempre timore di farlo rimanere male, o che si arrabbiasse. Era anche severo».
Con lei?
«Mi rimproverò per la partita che avevo perso, ai quarti di finale di Wimbledon nel ’79. In un altro caso mi sarei detto: ma che vuole questo? Però lui era Gassman, accettavi tutto. E poi aveva ragione».
È vero che in quel Wimbledon c’era anche Villaggio?
«Verissimo. C’era e si finse mio allenatore per molti giorni. Paolo riusciva a fare qualunque cosa, era senza freni. Diceva a tutti che era il mio coach, finché un inglese non l’ha riconosciuto».
Fino a che le è rimasto accanto, vinceva. Se ne è andato proprio in occasione della partita persa con Dupre, quella che poi le rimproverò Gassman...
«Ma non è stata colpa di Paolo. È stata colpa mia. Sono stato un cretino a perdere quel match».
Ha dato anche una sua «consulenza» per una delle gag più celebri di Fantozzi, il «batti lei» della partita con Filini.
«Solo qualche consiglio. Ha inventato tutto Paolo. Il “batti lei” è un’icona, non c’è tennista che non l’abbia ripetuto, specialmente quando si gioca in doppio, è un classico».
Altri amici del gruppo?
«Sergio Corbucci, il regista, mi faceva molto ridere. Uno che ha lavorato così tanti anni con Totò deve essere per forza speciale. Insomma ci divertivamo parecchio. In Sardegna c’era tutta la gente del cinema, uscivi a cena, chiacchieravi. Non come oggi».
Oggi com’è?
«Oggi l’ultimo dei tronisti ha la guardia del corpo, mi fa ridere. Allora non c’era il divismo. Giravi tranquillo, al massimo ti chiedevano un autografo. Non eravamo infastiditi se qualcuno ci fermava, oggi invece i vip sembrano avere tutti fretta: vanno di fretta, camminano di fretta, parlano di fretta».
Ma la vostra era una vita da divi.
«Non come molti credono. Ci divertivamo con niente, una partita di pallone, una cena. Oggi se non hai la barca da cinquanta metri non sei nessuno. A noi bastava un moscone per andare a fare il bagno. Non c’era questo sfarzo esagerato, questi miliardari che poi sono invisibili, vedi solo le barche...»
È sempre una dolce vita la sua?
«No no, per niente. È tranquillissima. Quei tempi sono finiti, sono irripetibili. La ricchezza ostentata mi fa orrore».
Lei non era ricco, ma quando ha iniziato a giocare il tennis era ancora uno sport d’élite.
«Una delle cose di cui vado più orgoglioso è che siamo stati io e i miei compagni di Davis a sdoganarlo, a renderlo lo sport popolare che è oggi».
Com’è stata la sua infanzia a Roma?
«Bellissima. Mio papà Ascenzio era custode del Circolo del tennis Parioli, uno dei più prestigiosi. Poi passò a quello del Coni, all’Eur, e io lo seguii. Mi chiamavano Ascenzietto. Ho sempre vissuto sui campi. E siccome non conosco l’invidia, ero molto sereno già allora».
È vero che avrebbe voluto iscriversi a nuoto?
«Sì, volevo frequentare la scuola del Coni. Mio papà andò a chiedere, ma gli dissero che non c’era più posto. C’era posto solo al tennis... è andata così».
Bene.
«Benissimo».
Campioni di cui è rimasto amico?
«Borg, Nastase, McEnroe, Noah. Non è che ci telefoniamo, ma se ci incontriamo a qualche torneo ci facciamo due risate. Però non amo molto le esibizioni di vecchie glorie...»
Ha raccontato che prima della vittoria del Roland Garros prese da parte il suo rivale Solomon, lo mise davanti allo specchio e gli disse: «Guardati, come fai a vincere?». Come ha fatto?
«Non mi stava simpatico. È vero, sono stato un po’ cattivo. Ma se lo meritava».
Nello stesso anno, il ’76, la squadra italiana va in Cile per la finale di Coppa Davis. La sinistra chiede di boicottare la partita, «Pinochet sanguinario, Panatta milionario». Poi Berlinguer e Andreotti si sono accordati e voi siete partiti. Però avete giocato la finale con le magliette rosse.
«Era un simbolo di protesta contro il regime, il colore delle madri e delle sorelle dei desaparecidos. Io sono sempre stato di sinistra, ma socialista. Niente a che fare col comunismo».
Come mai?
«Ho visto il comunismo negli anni Sessanta, quando andavamo nei paesi dell’Europa dell’Est per i tornei juniores. Ho visto di persona i regimi totalitari e non li ho mai amati: mancava la libertà».
Ha giocato a tennis con D’Alema. Com’è andata?
«Abbiamo giocato due o tre volte. È molto tignoso».
Ha giocato con altri politici?
«Con Amato, con Enrico Letta anche in doppio. E poi con Rutelli: gioca benino».
È anche stato in politica, da consigliere comunale e in provincia. Ci tornerebbe?
«No».
Che cosa fa oggi?
«Mi occupo di comunicazione. Mio fratello gestisce l’Accademia di tennis. Ah, ecco, io faccio anche il nonno».
È tenero?
«Coi bambini molto. Abbiamo finito?».
Che c’è, adesso è lei che ha fretta?
«No, no».
Ha detto che il ritiro dai campi è stato una liberazione. Perché?
«Non mi andava più, l’ultimo anno è stato una sofferenza. È un mestiere a esaurimento, a termine. C’è chi si ritira prima e chi dopo, io l’ho fatto a 34 anni, Borg per esempio a 26. Era il momento giusto, non ero ancora arrivato al declino totale».
L’hanno sempre accusata di essere pigro...
«E mi sono sempre arrabbiato. Sono il contrario del pigro, io. Altro che l’indolenza del romano, sono uno preciso, puntuale, pigro assolutamente no».
È un ritratto molto da «italiano»: il talento, la pigrizia. Perché se la prende?
«Perché hanno costruito un po’ il personaggio, ma se giochi a livello mondiale non puoi essere pigro, non puoi non allenarti. Eppure me lo dicono ancora oggi: eh, Adriano, se ti fossi allenato di più... Gente che neanche mi conosce».
Dice di odiare il divismo sui campi di oggi. Ma allora non c’era?
«No, oggi è il sistema a creare il divismo, noi ai tornei giravamo tranquilli, oggi è tutto blindato, esasperato. Sembra che chissà che stanno a fare... giocano in mutande con una pallina e una racchetta».
Allenerebbe qualcuno?
«Non sono sul mercato».
Che cos’è Roma?
«Fa parte del mio modo di essere, per me è la città più bella del mondo. Amo i suoi odori, la gente, i suoi difetti. È come una bella donna, una bella donna scafata: perché ammicca, ha visto tutto, non si meraviglia più di niente. È un po’ zoccola».
Ora lei fa parte della Roma bene...
«Ma se sono figlio di un operaio».
Lei frequenta...
«No, no, io sono uno tranquillo, non frequento niente, al massimo vado fuori a cena, al ristorante. Niente feste, niente salotti. Non che ci sia niente di male, conosco tutti, gente normale che ama lo sport, ma esco poco. Vado a letto presto. Guardi, ormai non mi invitano neanche più».
Neanche le sue Coppe ha più. È vero?
«Non so che fine abbiano fatto».
Non le dispiace?
«Non me ne frega niente. Non amo i simboli, che faccio, mi metto a guardare la coppa che ho vinto a Parigi? Dopo ero anche depresso».
Dopo la vittoria?
«Credo che sia normale un po’ di depressione, dopo tanta felicità. Poi però mi è passata, eh».
«Il tennis l’ha inventato il diavolo». Perché?
«Perché è uno sport micidiale, sei da solo per qualche ora e nessuno può aiutarti, è uno scontro fisico, tecnico e psicologico molto stressante, dura parecchio, ci vuole una grande forza nervosa, una grande concentrazione».
Lei soffriva?
«Lo stress non molto, non ero un conservatore, tendevo a rischiare parecchio. Però dopo quattro ore di partita sei svuotato. Sei stanco fisicamente e mentalmente. Ed è per questo che molti magari hanno un livello tecnico altissimo, ma restano giocatori mediocri».
Ha rimpianti?
«Nel tennis no, assolutamente. Ci ho pensato mille volte».
E nella vita?
«Un po’, come tutti».
E...
«Non ci provi. Non glieli dico neanche se mi tortura».