il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2014
L’ex magistrato Ingroia scrive al Fatto le domande che farebbe a Giorgio Napolitano se fosse lui a interrogare il Presidente della Repubblica sulla trattativa Stato-mafia
Ora che il momento della deposizione del presidente Napolitano al processo sulla “trattativa Stato-mafia” è arrivato, è giusto chiarire ai lettori del Fatto Quotidiano, italiani fortunati a essere stati costantemente informati di questo processo oscurato dai media, cosa è lecito attendersi da questa udienza che si svolgerà in pompa magna nientedimeno che al Quirinale, sede della più alta carica dello Stato. E credo di poter rivendicare, per la mia storia e il ruolo che in quel processo ho svolto, il diritto di poter dire la mia in virtù di un doppio vantaggio.
Il primo è quello di conoscere bene quell’indagine dall’inizio, avendola io avviata nell’ormai lontano 2000, fino alla sua impostazione costruita con i pm che oggi se ne occupano a dibattimento. Il secondo vantaggio è quello di essere un ex-magistrato, e quindi poter dire ciò che oggi a un magistrato non è consentito, visto che a colpi di procedimenti disciplinari, reprimende quirinalizie e adeguamenti obbedienti di un Csm trasformato da presidio dell’autonomia e indipendenza della magistratura a sede naturale dell’omologazione di giudici e pm, i magistrati sono stati ormai ridotti a cittadini di serie B, spogliati della libertà di espressione e del diritto di critica, se la critica investe la politica.
In virtù di questo doppio vantaggio, vi dico perché un’udienza che poteva e doveva essere indispensabile, se non decisiva, per l’accertamento della verità, ragion per cui la Corte d’Assise l’ha disposta quasi sfidando l’evidente riottosità del capo dello Stato, rischia di essere un’udienza inutile, perfino dannosa per l’accertamento della verità. Messa a rischio non certo dalla magistratura, ma – ancora una volta – dalla politica, una politica irredimibile, espressione di una classe dirigente troppo allergica al principio di responsabilità.
Io non sarò in quella sala del Quirinale trasformata in aula di udienza perché non sono più pm della Procura di Palermo, e non lo sono più anche perché ho ritenuto non vi fossero più le condizioni per un pieno accertamento della verità. E credo che la sorte di questa udienza ne sarà una riprova, così come la distanza fra le domande che avrei voluto fare io e quelle che i pm potranno fare al Presidente Napolitano.
La prima domanda che farei al Presidente Napolitano sarebbe: perché quando il senatore Nicola Mancino la cercò al telefono direttamente, e anche indirettamente tramite Loris D’Ambrosio, Lei non ritenne di astenersi dal mantenere rapporti e contatti con il senatore Mancino, che si sapeva essere in quel momento coinvolto nell’indagine sulla trattativa? Perché, anzi, assicurò il suo interessamento, facendo intendere a Mancino che avrebbe assecondato il suo disegno di sottrarre alla Procura di Palermo la direzione dell’indagine sulla trattativa? Lo fece solo per non dispiacere un vecchio amico e collega, o piuttosto lo fece per una superiore ragion di Stato? E quale, di grazia, era questa ragion di Stato? Peccato che questa domanda oggi sarebbe inammissibile, grazie alla politica, le ragioni della politica che l’hanno indotta, signor Presidente, a sollevare un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo. Le stesse ragioni della politica che poi hanno “indotto” la Corte costituzionale a darLe ragione, così coprendo di una malintesa immunità presidenziale tutte le Sue attività intorno a quella vicenda. Domanda respinta perché non consentita.
La seconda domanda, collegata, sarebbe di chiederLe perché non ritenne di contattare i pm palermitani per informarli dei contatti impropri attraverso i quali Mancino cercava di interferire sulle indagini in corso. Ma immagino che anche questa domanda mi sarebbe inibita dal presidente della Corte d’Assise in virtù di quella stessa sentenza politica della Corte costituzionale. Domanda respinta perché non consentita.
E ancora peggior sorte avrebbero le mie domande sulle telefonate “indicibili”, essendomi sempre chiesto perché Napolitano, se fosse stato davvero convinto che le telefonate intercettate con Mancino non contenessero nulla di inquietante e indicibile, non ha fatto nulla per sgombrare il campo da malignità e dietrologie, facendo in modo che quelle telefonate diventassero pubbliche, anziché addirittura imporne la distruzione. Domanda respinta perché non consentita.
E ancora: è certo, signor Presidente, che il conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte costituzionale contro la Procura di Palermo abbia aiutato la ricerca della verità e non l’abbia invece ostacolata? Domanda respinta perché non consentita. E infine: è certo che il tentativo di sottrarsi alla testimonianza dichiarandola preventivamente inutile sia stato un modo per aiutare la ricerca della verità? Domanda respinta perché non consentita. In ultimo, con impertinenza: perché non ha mai espresso solidarietà ai magistrati del “pool trattativa” minacciati dalla mafia, da ultimo il pm Antonino Di Matteo, destinatario di messaggi di morte da parte di Totò Riina? Domanda respinta perché non consentita e provocatoria.
Ma avrei insistito. Del resto, mi è già accaduto a Palazzo Chigi, quando andai a interrogare Silvio Berlusconi nel corso del processo Dell’Utri, di provare a insistere con le domande nonostante Berlusconi, come oggi Napolitano, avesse fatto sapere alla Corte di non avere notizie utili da riferire, e alla fine venne costretto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Facoltà invece non consentita al Presidente Napolitano. E perciò, insistendo, avrei chiesto al Presidente quali fossero i segreti su certi “indicibili accordi” che Loris D’Ambrosio aveva rivelato solo a lui e mai ai magistrati, come lo stesso D’Ambrosio scrisse nella lettera del 18 giugno 2012 indirizzata a Napolitano. Quel segreto che aveva così tanto tormentato un uomo di Stato come D’Ambrosio da farlo morire di crepacuore (se solo crepacuore fu, visto che non è mai stato disposto alcun accertamento medico-autoptico). Un segreto che solo Lei, sig. Presidente, può rivelare alla Corte.
Se il Presidente avesse risposto di non sapere nulla di questi “segreti di Stato”, allora la domanda conseguente sarebbe stata: signor Presidente, pensa che Loris D’Ambrosio abbia scritto il falso rievocando un colloquio riservato con Lei in cui l’aveva messo a conoscenza di quei segreti? E perché avrebbe dovuto scrivere il falso in una lettera riservata a lei indirizzata?
Ma so che anche queste domande rischierebbero di non essere ammesse. Qualche autorevole opinionista, investito di quirinalizie preoccupazioni, sostiene che domande del genere sarebbero impedite dalle supreme prerogative presidenziali.
Io credo, invece, che sono domande che attendono risposta già da troppo tempo. Il presidente Napolitano ha la possibilità di fare chiarezza, sgombrando finalmente il campo da opacità e sospetti, dando un contributo decisivo nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità in una vicenda ancora avvolta da troppi misteri, ancora ostaggio di troppi depistaggi di Stato, di troppi “non so” e “non ricordo” di fonte istituzionale. Dopo più di 20 anni di silenzi, depistaggi, connivenze, omertà di Stato deve arrivare il momento della verità. Lo si deve a tutte le vittime delle stragi di mafia, lo si deve ai loro familiari. Solo con la verità l’Italia potrà dire di essersi meritata il sacrificio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e dei tanti altri italiani caduti fra guerre e trattative con Cosa Nostra.
Le mie domande sarebbero impertinenti? Forse. Ma sono le domande di chi ha giurato sulla bara di Paolo Borsellino che avrebbe fatto di tutto per scoprire tutta la verità sulla morte sua e di tante altre vittime innocenti, e oggi sappiamo anche della trattativa. Di tutto. Anche a costo di uscire dalla magistratura, e quindi a costo della propria carriera. A qualsiasi costo. Provando a emulare l’irriducibilità e l’intransigenza di un vero uomo come Paolo Borsellino. Ma siamo in Italia. Le cose vanno diversamente. Quelle domande sarebbero ormai dichiarate inammissibili.
Il Presidente non risponderà a nulla di tutto questo. E, oltre il danno la beffa, l’intero processo rischia pure di essere dichiarato nullo perché, con un’ordinanza assai dubbia sul piano del diritto e della Costituzione, la Corte di Palermo, pur di non aprire un altro conflitto col capo dello Stato, ha estromesso gli imputati dalla partecipazione all’udienza che Napolitano ha preteso avvenisse in Quirinale. E la verità si allontana. In Italia c’è chi regna sovrano e chi ha scarsa memoria, cantava Rino Gaetano, ma il cielo è sempre più blu. E – aggiungo io – l’Italia va sempre giù. Tanto per fare la rima.