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 2014  ottobre 24 Venerdì calendario

Justin Bennet, il collezionista di borbottii: «Roma, Barcellona, Guangzhou, Parigi, Vienna, Amsterdam, Istanbul. Li ho ascoltati tutti. Per strada, nei cortili, negli interni, sui tetti. E ogni città suona in modo diverso. La voce di ognuna dipende dal traffico: in alcuni posti ci sono più motorini, in altri più Suv, in altri ancora biciclette o le barche che suonano deliziosi sciabordii»

Ogni flâneur lo sa: conoscere una città vuol dire sentirla. Penetrarla fino ad ascoltarne il ritmo, la musica interiore. Lo faceva Baudelaire, nelle sue riflessioni da «botanico del marciapiede»; lo faceva il Robert Walser de La passeggiata (1919). Justin Bennett, 50 anni, nato nel Warwickshire, oggi abita a L’Aia. È un artista e lavora con i suoni. Di più: è un collezionista di rumori. «Ho visitato innumerevoli città, dall’Europa alla Cina — spiega — e ne ho raccolto lo spirito attraverso i borbottii». 
A Open Museum Open City propone due installazioni: Hyper-Forum , archivio di registrazioni realizzate a Roma e «compresse» in un cubo sonoro e Oracle 2.0 , dove si mescolano migliaia di citazioni dal sapore divinatorio, da Seneca a certe affermazioni rubate dalla Rete, unite le une alle altre con casualità affabulatoria. 
«Roma, Barcellona, Guangzhou, Parigi, Vienna, Amsterdam, Istanbul — continua Bennett —. Le ho ascoltate tutte. Per strada, nei cortili, negli interni, sui tetti. E ogni città suona in modo diverso. La voce di ognuna dipende dal traffico: in alcuni posti ci sono più motorini, in altri più Suv, in altri ancora biciclette o le barche che suonano deliziosi sciabordii».
Ma non solo. La sottigliezza di questo artista (che negli anni ha raccolto un vero archivio sonoro del mondo) sta nella continua riflessione tra suono e architettura. Storia affascinante: mentre progettava il Padiglione Philips a Bruxelles, Le Corbusier chiese aiuto al compositore Iannis Xenakis; Bruce Nauman ha studiato a fondo l’architettura della Turbine Hall alla Tate Modern di Londra prima di installare i famosi altoparlanti (nel 2004) che riuscivano a riempire lo spazio vuoto ripetendo ossessivamente «Think Think Think Think...». 
Bennett conferma: «L’architettura mediterranea, in particolare quella araba, suona in modo speciale a causa dei materiali da costruzione e per la struttura delle abitazioni: cortili in piastrelle, piccole finestre aperte, tetti piani, le strade strette che fanno riverberare i rumori. Che differenza con le città europee con strade larghe, imponenti facciate in mattone con finestre in vetro». Si può azzardare: arpeggi nelle une e riff di chitarra nelle altre? 
Al MAXXI, dunque, ascolteremo la voce segreta di Roma in Hyper-Forum . «Che traffico! — commenta l’artista —. Provenendo da una città non grandissima come L’Aia, è la prima cosa che mi ha colpito. Ma vi invito a sentire Piazza di Siena a Villa Borghese: la sabbia al centro assorbe il suono, mentre grazie a un’acustica speciale, arriva l’eco delle terrazze circostanti e tutto sembra quasi un concerto». Bennett lavora sull’influsso che il suono esercita sulla psicologia umana: i politici sanno bene qual è il luogo adatto ai comizi in base al rumore e nel bellissimo, recente saggio Architettura e potere (Laterza), Deyan Sudjic ci ricorda che per l’architetto di Hitler, Albert Speer, lo studio dell’eco era fondamentale. 
La ricerca artistica di Bennett si fonda su queste connessioni. «Il carattere di una città passa attraverso la capacità della sua voce di influenzare gli abitanti — conclude —. Di Roma colpisce molto la enorme differenza tra aree sonore spesso vicine: ci sono posti silenziosissimi e, non lontano, ne spuntano altri incredibilmente rumorosi. La cosa interessante arriva quando ogni rumore restituisce un’immagine: sentirete una ricetta per il minestrone, un turista ubriaco, un uomo che fa jogging, uno skateboarder solitario. Ascoltare l’installazione è un po’ come visitare la città, anche visivamente». 
Il suono che si trasforma in immagine è una intuizione che ha compiuto un secolo: era il 2013 infatti quando Luigi Russolo inventò l’Intonarumori, una famiglia di strumenti musicali che riproducevano gorgoglii, strepiti, frenate, clacson, scoppi. Era un altro modo di dipingere la città, tendenza che affascinava i futuristi per il dinamismo di cose, persone, idee. Come ha riassunto finemente Claudio Magris: «Sono le voci che contano».