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 2014  ottobre 23 Giovedì calendario

Tronchetti Provera vuole provare in tribunale che Carlo De Benedetti è un uomo fallito. Accusato di diffamazione, il numero uno della Pirelli ora vuole un processo pubblico e l’Ingegnere dovrà metter in piazza il suo passato, dall’Olivetti all’Ambrosiano

E adesso ci sarà da divertirsi. Tra poco vedremo l’ingegnere Carlo De Benedetti, il sommo inquisitore, in tribunale a dover rendere conto del suo passato imprenditoriale: dai cento giorni della Fiat all’Olivetti, dalle apparecchiature vendute alle Poste al Banco Ambrosiano. La rinfrescata che ci regaleranno le udienze pubbliche al tribunale di Milano valgono una finale di X-Factor (quel programma che purtroppo va in onda il giovedì sera). Un colpaccio messo a segno, si deve ritenere, con sadico gusto da Marco Tronchetti Provera e dai suoi avvocati.
Oltre al passato di Cdb, conviene rinfrescare, a questo punto, la memoria dei nostri lettori. Il grande finanziere è un po’ permalosetto, ma questo non gli impedisce di utilizzare toni piuttosto ruvidi nei confronti dell’universo mondo. Può sostenere senza colpo ferire di essere circondato da cretinetti (da Passera a Marchionne, da Colaninno ad Elkann), ma se qualcuno lo tocca scatta la querela. Mal gliene incolse dunque a Tronchetti quando sostenne: «Se anche io raccontassi - dichiarazione rilasciata all’Ansa - la storia delle persone attraverso i luoghi comuni e gli slogan, potrei dire che l’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, che fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che finì dentro per le vicende di Tangentopoli».
Tronchetti non era in una giornata di cattivo umore (cosa che può capitare a tutti), più banalmente rispondeva a un’«insolenza» che poco prima l’ingegnere gli aveva riservato sulla gestione della Telecom: «La comunicazione è fatta bene, la rapina ancora meglio».
Botte da orbi. Decidete pure voi chi abbia iniziato (vabbè questo è semplice) e chi abbia ragione. Quello che noi sappiamo è che Cdb per quella frase rilasciata all’Ansa querelò Tronchetti e che di conseguenza al tribunale di Milano si è aperto un fascicolo per reati che potenzialmente valgono sette anni di carcere.
La novità di queste ore è che gli avvocati di Mtp hanno depositato presso la cancelleria del Gup di Milano la rinuncia all’udienza preliminare. Ve la facciamo semplice. Con una mossa a sorpresa, ma con il senno di poi, comprensibile, Tronchetti vuole andare immediatamente a processo, senza tanti rinvii. Non solo pretende un pubblico dibattimento (non si vedono le ragioni di ordine pubblico per farlo a porte chiuse), ma rinuncia a far valere le sue ragioni in modo documentale.
Tronchetti vuole che il procedimento per cui è imputato viaggi più che spedito. Rinuncia alla possibilità che un giudice dell’udienza preliminare, viste le carte, archivi il tutto o trovi una via di conciliazione, e pretende di andare il prima possibile in dibattimento, in udienza, con testimoni e tutta la liturgia di un processo pubblico. Se siamo fortunati (sarà uno spettacolo da non perdere) già a febbraio potremo vedere Carlo De Benedetti sul banco dei testimoni.
Insomma gli avvocati di Tronchetti ci fanno un regalo straordinario, che a renderlo semplice si può sintetizzare così: caro Ingegnere, adesso si presenti in tribunale davanti a tutti e ci spieghi su quali basi si è sentito diffamato dalle dichiarazioni di Tronchetti.
Ci spieghi, Ingegnere, chiederanno i legali di Tronchetti, perché si è sentito diffamare quando il nostro assistito ha sostenuto che i bilanci della Olivetti fossero discussi; o perché non si possa sostenere che la vendita delle apparecchiature alle Poste italiane sia stato uno scandalo, quando lei stesso, Ingegnere, in un’intervista al Wall Street Journal ha detto che «ripagherebbe con il medesimo disgusto».
Insomma avete capito. Tra poco vedremo l’accusatore (De Benedetti) in udienza a dover giustificare all’indagato per diffamazione (Tronchetti) i motivi per i quali si è sentito offeso. E gli avvocati di Tronchetti riporteranno a galla un ventennio che evidentemente De Benedetti ritiene assolutamente immacolato.
Nicola Porro
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Tirreno Power ha le ore contate. E con lei una parte dell’industria energivora italiana. L’accordo di «standstill» (moratoria), firmato quest’estate con una decina di banche per congelare i debiti che gravano sull’azienda (circa 1 miliardo, di cui 861 per cassa), sta per scadere. Il 31 ottobre scatta, infatti, il termine concesso dagli istituti di credito per mettere a punto un riassetto propedeutico al risanamento finanziario. Il gruppo - al 50% della francese Gdf-Suez e al 50% di Energie Italiane (di cui sono azionisti Sorgenia con il 78%, Hera e Iren con l’11% a testa) - punta a ottenere più tempo. E, secondo alcune fonti che hanno partecipato ieri a una conference call tra le parti, la richiesta di una proroga dovrebbe essere al centro di un vertice tra le parti all’inizio della prossima settimana. Tirreno Power conta di poter ottenere una proroga almeno fino a fine anno. Ma teme gli interessi in gioco. Le dieci banche coinvolte hanno, infatti, diverse priorità perché alcune di loro hanno preso parte anche al riassetto Sorgenia, la società elettrica della famiglia De Benedetti (che a inizio del 2015 passerà tecnicamente nelle mani delle banche che l’hanno salvata) e che controlla il 39% di Tirreno Power. È il caso di Bnp, Unicredit, Calyon, Intesa Sanpaolo, Cdp, Mps e Portigon che con Sorgenia e Tirreno Power si trovano, in pratica, nella duplice veste di finanziatori e di soci, seppur di minoranza. Gli altri istituti coinvolti nell’operazione - Bbva, Ing e Mediobanca - sono invece solo finanziatori della società. Singoli interessi a parte, in base agli ultimi sviluppi, sembra comunque inevitabile una proroga. Nessun piano e nessun risanamento potrà infatti avvenire prima che si sciolga il nodo di Vado Ligure, cuore del business di Tirreno Power, dove ha sede una storica centrale termoelettrica che insieme a quelle di Torrevaldaliga Sud e Napoli Levante compone il parco impianti del gruppo. Il sito produttivo è stato sequestrato dal giudice di Savona lo scorso marzo per presunto disastro ambientale e mancato adeguamento ai limiti sulle emissioni imposti dall’Autorizzazione integrata ambientale (Aia).
Ma a sette mesi di distanza, la situazione è più che mai in alto mare. Dopo il fermo, la qualità dell’aria, secondo la Regione Liguria, non è sostanzialmente cambiata. E lo stesso giudice nel provvedimento ha riconosciuto che nessun limite di legge è stato superato dall’azienda, ma che vige un principio di precauzione a motivare il fermo. Nonostante ciò, l’Aia è stata sospesa e per l’azienda si va verso la chiusura «se le richieste per riottenerla non verranno modificate con parametri meno gravosi». In gioco c’è il futuro di 250 lavoratori (800 con l’indotto), ai quali ieri il leader della Cgil, Susanna Camusso, ha promesso la convocazione a breve di un tavolo istituzionale.
Un altro nodo da sciogliere per il premier Matteo Renzi, ma anche per i soci che hanno le mani legate. E per i quali si sta profilando anche una possibile uscita dal capitale. Al momento sembra, comunque, che il piano di salvataggio della società energetica segua le stesse orme di Sorgenia e preveda un aumento di capitale intorno agli 80 milioni da parte dei soci e l’ipotesi di una conversione in capitale di 400-500 milioni di crediti (la cifra esatta dipende dall’esito della battaglia giudiziaria su Vado Ligure) mentre il residuo dovrebbe essere rinegoziato. Sull’esposizione per cassa la lista degli istituti vede in testa Unicredit e Bnp Paribas con 157,9 milioni a testa, seguiti da Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Cdp, Mps, Ing, Portigon con 78,9 milioni l’una, Calyon con 69,9, Bbva con 9 milioni.
Sofia Fraschini