la Repubblica, 23 ottobre 2014
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È morto a 93 anni Ben Bradlee, il direttore del Washington Post che scoperchiò il Watergate e fece dimettere Nixon. Duro e carismatico, è il padre dei grandi reporter investigativi
Era il giornalista che inventò il giornalismo e demolì un governo. Ben Bradlee, anzi Benjamin Crowninshield Bradlee nella dizione completa del suo nome da patrizio bostoniano, non inventò la professione, che preesisteva a lui e che gli sopravviverà, ma creò la mistica di un mestiere che con lui divenne ciò che mai era stato prima e forse non sarà mai più: quel “Quarto Potere” capace di far tremare i governi.
Che sia morto a 93 anni, nella grande e centenaria casa di mattoni rossi a Georgetown appartenuta già al figlio di Abraham Lincoln, smarrito nella nebbia dell’Alzheimer, proprio lui che al timone del Washington Post aveva squarciato con la luce del giornalismo senza favori e senza paura il buio del Watergate, del Vietnam e della presidenza Nixon, è soltanto il crudele contrappasso di un destino che Ben, nel suo cinismo da “Prima Pagina” avrebbe addirittura apprezzato e gustato in un pezzo dei suoi adoranti reporter. Bradlee era tutto ciò che un giornalista vorrebbe essere e quasi mai, se mai, riesce a essere, disposto a consumare tutto sull’altare di una passione maniacale. Non era nato per finire nelle allora fumose stanze delle redazioni fetide di tabacco e whisky a buon mercato, né per dirigerle. Per parte di madre, il suo lignaggio risaliva alle famiglie regnanti d’Europa anche se la Grande Depressione aveva devastato le fortune di casa. Harvard — l’università dei bramini, del generone di Boston — era stata la sua naturale destinazione. Ma da quella università, sarebbe uscito con una laurea in letteratura greca e latina e il grado di guardiamarina, volontario in su un cacciatorpediniere nel Pacifico. Dall’uniforme sarebbe passato alla nera di quotidiani locali, a un tavolo nell’ufficio stampa dell’ambasciata Usa a Parigi, fino all’ufficio di corrispondenza da Washington del settimanale Newsweek. Ma proprio a Washington, nello stesso quartiere dove sarebbe morto due giorni fa, Bradlee conobbe un vicino di casa sconosciuto quanto lui, un giovanotto ambizioso sul quale il giovane redattore scommise il proprio futuro: il suo nome era John Fitzgerald Kennedy, bostoniano come lui, spaesato e disperso nella capitale degli intrighi politici e delle “Case di Carta”. E quando un marginale quotidiano locale, sconosciuto nel mondo, ignorato in America e letto poco nella propria città, acquistò Newsweek , Bradlee, con la sfrontatezza, la brutalità, la presunzione che lo avrebbero fatto grande, affrontò l’editore proprietario, la dignitosissima, educatissima Kay Graham, per avvisarla che lui, Ben, sarebbe diventato direttore, «a costo di tagliarsi il coglione sinistro ». Kay trasecolò, arrossì, finse di indignarsi. E Ben Bradlee divenne direttore, senza mutilazioni. L’ostentata volgarità di questo giornalista dal volto scavato che neppure Jason Robards nel film Tutti gli uomini del Presidente riuscirà a riprodurre fino in fondo, il clima fra la stiva di un nave da guerra e un’aula harvardiana che avrebbe introdotto nella nuova sede del Post a pochi metri dalla Casa Bianca, sarebbero stati tutti espedienti da poseur se Bradley non avesse trasformato il giornale in una zecca, arrivando a vendere oltre un milione di copie vere, e in un altare del giornalismo investigativo davanti al quale legioni di giornalisti nel mondo avrebbero pregato. Dalla sala riunioni, costruita come un acquario per potere vedere tutta la redazione, ed essere visto, negli scoppi di ben temperata collera che faceva piovere sui suoi collaboratori sorpresi dalla concorrenza, dominò per tutti gli anni ‘70 la città più potente del mondo. Fino a rovesciarne il sovrano eletto, Richard Nixon, nel 1974, che aveva osato sfidare la Costituzione, le leggi, i tribunali, il buon gusto, ma soprattutto lui, Ben.
Nelle riunioni di redazione, alle quale veniva ospitato a volte un grande amico della proprietaria, Gianni Agnelli, ma facendolo sedere su una panca laterale della sala come un fattorino perché nessuno era ammesso al tavolone dei cavalieri di re Ben, si divertiva a esibire la propria potenza. Mentre sguinzagliava Woodward e Bernstein sulla pista indicata dalla Gola Profonda dell’Fbi per arrivare a Nixon e per umiliare gli odiati rivali della Cia, convocava un redattore semplice, recensore di musica rock, Tony Zito, colpito da un’indagine sul padre, italo-americano accusato di evasione fiscale. Chiamava al telefono il ministro della Giustizia Mitchell, ricorda oggi Zito, per dirgli «di non rompere i coglioni a un giornalista del Post per qualcosa che aveva fatto il padre». E avvertirlo che se non avesse ritirato la convocazione in tribunale sarebbe andato da lui, dal ministro, «a infilargli la convocazione su per il…». La convocazione fu ritirata e pochi mesi più tardi Mit- chell si dovette dimettere. Miss Regan, la sua leggendaria assistente per 30 anni, prendeva impassibile sotto dettatura i sui sfoghi e spediva lettere di fuoco. «Un giorno mi telefonò — rammenta il redattore responsabile dell’ortografia nel giornale — per chiedermi se testadicazzo fosse una parola sola». Non era, contrariamente alla paranoie nixoniane che vedeva anche in lui un tentacolo della piovra kennediana, politicamente schierato. Apparve “liberal”, democratico, soltanto perché i suoi avversari erano soprattutto repubblicani, ma fu ostile anche verso Carter, che venne sempre ostracizzato e mai invitato nella grande casa rossa sua e della moglie, Sally Quinn. Anche sulla guerra in Vietnam era tormentato: «Non potevo sostenere un governo di bulli comunisti che si credevano in diritto di divorare un’altra metà della nazione ma non potevo appoggiare una nazione fantoccio guidata da una gang di corrotti che restavano al potere sui soldi e sul sangue degli americani». Eppure, i “Pentagon Papers” i documenti segreti di Daniel Ellsberg che smascherarono le dimensioni del disastro indocinese, apparvero sulle pagine del Post come del New York Times e furono l’inizio della fine. Non si considerava, e non si sarebbe mai considerato un eroe, ma soltanto un accanito difensore del Primo Emendamento, della libertà di stampa. Con le sue dimissioni, nel 1991, gli sarebbero state risparmiate l’umiliazione e il declino della corazzata che aveva creato, oggi alla deriva tra edizioni digitali, carta, proprietà di miliardari arricchiti con le vendite online e smagrita alle poche pagine che hanno sostituito il delizioso pacco di inserti che nutrivano le domeniche dei lettori. L’ultimo grande scandalo, il caso Lewinsky, partì da un sito in Rete, mentre il Post dovette subire l’umiliazione di un Pulitzer restituito perché un magnifico reportage su un bambino di otto anni eroinomane risultò tutto inventato. «Una volta si usavano i soldi per fare i giornali, oggi si tenta di usare il giornalismo per fare soldi» — disse prima di allontanarsi nelle paludi dell’Alzheimer — e tutto dipende dalla «fottutissima Wall Street. Che poi è soltanto un colossale casinò gestito da bari». Non poteva esserci dunque più posto per uno come Ben Bradlee, professione giornalista.