La Stampa, 23 ottobre 2014
Finalmente anche Bruxelles ha capito che l’austerità non porta la ripresa. Ma se Parigi e Berlino restano paralizzate, Roma deve dimostrarsi capace di fare le riforme sulle linee che ha promesso
Il debutto di Jean-Claude Juncker davanti al Parlamento europeo mostra che qualcosa si muove: diventa sempre più chiaro che l’austerità non porta la ripresa, e che occorre cambiare strada. L’interrogativo è se il mutamento sarà abbastanza rapido da evitare uno scontro politico tra i maggiori Paesi dell’area euro.
A poco è servito sceneggiare i rapporti tra Italia e Commissione europea secondo i ricordi del passato, bacchettate, bocciature, rimbrotti, sberleffi. Il «fondo di riserva» inserito nella manovra 2015 contiene i margini per intendersi a metà strada salvando la faccia a entrambe le parti, come probabilmente avverrà nei prossimi giorni.
Quale realtà corrisponderà poi alle cifre contabili, è tutto da vedere; e ha una importanza relativa. Di fatto, la manovra economica italiana rifiuta di rispettare alla lettera il «Fiscal Compact» europeo; questo andava pur detto, da chi ha il compito di dirlo. D’altra parte, ormai (quasi) tutti nel continente sanno o sospettano che applicare quella regola oggi sarebbe letale.
Il nuovo presidente della Commissione europea, politico astuto, sta studiando come destreggiarsi. Un po’ di faccia severa contro Francia e Italia potrà forse aiutarlo ad ammorbidire la resistenza della Germania al piano di investimenti aggiuntivi per 300 miliardi sul quale si è di nuovo impegnato ieri mattina davanti all’assemblea di Strasburgo. Però l’accordo è già in vista.
I rischi sono altri. Un compromesso pasticciato come se ne sono conclusi tanti negli anni scorsi non risolverà nulla. L’attenzione va spostata altrove: il governo italiano dovrà soprattutto mostrarsi capace di riformare l’Italia sulle linee che ha promesso. Questo è il contributo migliore alla ripresa in un’Europa purtroppo paralizzata nei suoi due centri politici più importanti.
A Parigi non si riesce a decidere quasi nulla (e sì che tanti in Italia esaltavano la repubblica presidenziale!). A Berlino ci si comporta come se nulla stesse accadendo. Negli anni scorsi avevano aggravato le difficoltà dell’area euro contrastanti interessi nazionali, legati anche a questioni di potere bancario. Ora, a impedire di uscire dalla crisi è soprattutto il peso di idee vecchie.
In Francia si tratta soprattutto della «sinistra passatista, nostalgicamente attaccata a un passato lontano» nelle parole del primo ministro Manuel Valls che se ne vuole distanziare; una sinistra ostile perfino a liberalizzazioni tipo quelle di Prodi e Bersani nel 2006, che non esita a far traballare il governo quando l’estrema destra xenofoba è lanciatissima nei sondaggi.
Nell’altro caso si tratta della maggioranza di governo tedesca, orgogliosa di un passato più recente, della Germania che si risolleva negli anni Duemila e supera la prima fase della crisi senza perdita di posti di lavoro; eppure oggi solo capace di impartire agli altri Paesi prediche obsolete e di far muro contro tutte le iniziative che Mario Draghi studia per ravvivare l’economia.
All’interno della Banca centrale europea le idee nuove si sono fatte strada, ultima prova un discorso tenuto dal membro del direttorio Benoît Coeuré qualche giorno fa: le riforme strutturali sono indispensabili ma nell’immediato possono perfino essere controproducenti se non si avrà allo stesso tempo un impulso della politica di bilancio da parte dei Paesi che se lo possono permettere.
L’unica speranza sta nell’adoperare insieme tutti gli strumenti, perché combinati funzionano meglio. L’Italia ne è un esempio chiaro. A poco servirebbero cali di tasse anche forti oppure buoni investimenti se non si ha – dalle strutture dello Stato, dalla vita pubblica – l’impressione che in questo Paese valga la pena darsi da fare, impegnarsi, scommettere sul futuro.