Corriere della Sera, 23 ottobre 2014
Quelle mille braccianti romene che oltre ad essere sfruttate economicamente ora lo sono anche sessualmente. Alcune finiscono col prostituirsi in discoteche rurali altre restano in balia dei loro padroncini. Intanto le mogli di Vittoria (Ragusa) fanno finta di niente
Nell’epoca di Facebook, del tutto-in-Rete e dei conflitti gridati, esistono ancora i drammi sordi. Quelli che si consumano nel silenzio, nello scorrere uguale di giorno/notte e trasformano gli scandali in abitudini. Dopo le accuse di don Beniamino Sacco e della Cgil sullo sfruttamento delle romene nelle campagne di Vittoria, capitale del pomodoro ciliegino e datterino, ci si comincia a chiedere cosa succeda veramente nella zona che va da Scoglitti ad Acate, su su fino a Ragusa.
Vista dall’alto la piana del pomodorino appare un’immensa distesa di plastica che ricopre migliaia di serre. Qui si sta consumando uno di quei drammi sordi: un migliaio e più di romene immigrate in Sicilia, isolate nella campagne è vittima di un assoggettamento che non è più solo economico ma ha invaso la sfera sessuale. Don Sacco denuncia i «festini agricoli» che si tengono di quando in quando, un triste bunga bunga del ceto medio proprietario in cui il piatto ricco sono le donne venute dalla Romania. Ma anche a non ascoltare il parroco basta girare per il Vittoriese per imbattersi in discoteche rurali dai nomi ammiccanti come «Sesto senso» e «Dolce vita». Mancano solo «Colpo grosso» e Umberto Smaila. Purtroppo c’è poco da ridere e la dimostrazione sta nel nuovo fenomeno che inquieta i religiosi e non solo. Vittoria sta diventando terra di aborti, nessuno sa con precisione i numeri ma si parla di una crescita esponenziale (5-6 a settimana per una città di 60 mila abitanti) e perfino l’avvocato Giuseppe Nicosia, sindaco piddino di Vittoria, che alle prime voci aveva difeso il buon nome della città oggi ammette che «mi sono stati riferiti numeri pesanti e ho chiesto all’azienda sanitaria un riscontro ufficiale».
Le serre hanno rappresentato una svolta per l’agricoltura locale, hanno destagionalizzato la produzione e permesso di entrare nel ricco mercato delle primizie. Da qui la nascita di un imprenditorialità diffusa che il Pci, egemone in città, aveva favorito con lo slogan «qui la terra si acquista, non si conquista». A Vittoria sono 3 mila le piccole aziende agricole e diventano 5 mila con i comuni limitrofi. La maggior parte ha dai 2 ai 4 dipendenti, pochissime vanno oltre i 50. I padroncini lavorano come muli presentandosi in azienda alle 5 e tornando in paese non prima delle 18, ma nel tempo hanno potuto comprare case in città e al mare, mandare in giro mogli e figli griffati di tutto punto. Oggi il Bengodi non c’è più, il pomodorino alla produzione rende 10 cent al chilo e poi lo si trova sui banchi dei supermercati anche a 1,5 euro. La pressione sul lavoro si spiega anche così, si scarica in basso la competizione sui prezzi e negli anni c’è stato un ricambio totale della forza lavoro.
I tunisini che avevano popolato le campagne ragusane sono stati sostituiti dai romeni diventati comunitari nel 2008. I maghrebini erano più professionalizzati, attenti a esigere salari regolari e costituivano una comunità coesa e solidale. I romeni sono il contrario. Accettano salari più bassi (massimo 25 euro e in piena evasione Inps), spesso vengono saldati solo a fine stagione ma soprattutto non costituiscono una comunità capace di difendersi. Oltre il 40% della manodopera romena è fatta di donne, arrivate in autobus dalla zona di Botosani perché hanno da mantenere qualcuno in patria: quasi sempre un bambino nato presto da una relazione instabile o finita male. Se in tutto i romeni di questa zona sono 4 mila le donne saranno 1.600-1.800, hanno un’età che va dai 20 ai 40 anni e faticano nelle serre per 11 ore sei giorni alla settimana. Il pomodoro cresce in altezza, va curato e accudito con i fitofarmaci, legato con lo spago, messo al riparo dalla muffa.
Il guaio è che i braccianti venuti dall’Est vivono accanto alle serre. Le abitazioni sono ex depositi attrezzi o baracche, i muri sono senza intonaco, i pavimenti in terra battuta, i servizi all’esterno. Si vive e si dorme in una condizione di degrado e isolamento: nella Sicilia sud-orientale città e campagna sono mondi distanti tra loro un secolo. Vittoria ha i suoi negozi alla moda, ristorantini e locali per l’aperitivo, tantissimi voti per i 5 Stelle. Nelle contrade i soldi bastano alle romene appena per sopravvivere e mandare qualcosa in patria ai figli e alle zie vere/presunte che li tengono con loro. È questa la base materiale del ricatto implicito dei padroncini, l’assoggettamento si è allargato e le braccianti sono diventate vittime delle attenzioni maschili. Don Sacco sa molte cose e le racconta, i fedeli con lui si aprono più che con il sindacato e le autorità. Ne viene fuori uno spaccato in cui la proprietà sessuale è diventata fenomeno di costume. Mancano episodi di violenza gridata, casi da cronaca nera e ambulanze che corrono in ospedale, il sopruso è perversa e grottesca abitudine. Il sacerdote non ha peli sulla lingua: sarebbero tra le 1.000 e le 1.500 le donne romene in balia dei loro padroni. Alcune avrebbero addirittura preso la strada della prostituzione, altre (poche) all’opposto sarebbero diventate buone mogli di campagna, qualcuna aspetta sempre che il padrone lasci la moglie ma il grosso è catalogabile in un’area grigia di concubinato forzoso dalla quale non si esce. Chi perde il lavoro perde anche l’alloggio.
L’arroganza machista dei padroncini si spinge al punto di non usare il preservativo e la consuetudine diventa dramma con il ricorso all’aborto. In qualche caso (raro) i tempi-limite sono trascorsi e sono nati dei bambini. Le signore di Vittoria non hanno preso di petto la questione, vivono lontane dal luogo dei misfatti, sono coetanee dei loro mariti e figlie di altri padroncini, tutte casalinghe e in fondo anche loro non possono giocarsi il posto di moglie. Qualcuna va dal parroco e se la prende con le romene accusate di lavorare in abiti succinti (nelle serre ci sono anche 50 gradi!), le altre chiudono le orecchie se l’uomo spiega che d’estate preferisce dormire in campagna. I mariti hanno tra i 50 e i 60 anni, un livello di istruzione bassa e sanno che negli affari la pacchia è finita. Sono abituati a comandare e via via hanno trovato naturale impadronirsi anche della libertà sessuale delle dipendenti.
Il sindaco Nicosia ha paura che ne derivi una campagna contro la città o che il ciliegino diventi sinonimo di schiavismo e venga boicottato. Il primo articolo scritto sul sito dell’ Espresso dal giornalista siciliano Antonello Mangano lo ha colpito, le successive telefonate delle tv lo hanno allarmato. Oggi con sincerità dice: «Ammiro e rispetto Don Sacco per quello che fa in città con la sua casa accoglienza, non parla mai a caso e anche quando mi critica penso che faccia bene perché accende i riflettori sullo sfruttamento e l’incultura». Il parroco nell’azione moralizzatrice ha come alleata la Flai-Cgil locale. Uno dei segretari, Beppe Scifo, conosce tutto delle campagne ragusane, non sta in sede ad aspettare i migranti ma con un pullmino gira quando cala il sole, è un piccolo Di Vittorio che ne sa anche di sociologia. Non ama le espressioni roboanti, preferisce il sindacalismo dei gesti concreti. Con lui nella rete della solidarietà per i migranti lavora anche la cooperativa Proxima che si occupa dei casi più spinosi, ragazze madri di varie etnie vittime di violenza e abbandono. Tra loro c’è solo una romena. Il grosso resta invisibile nella segregazione e nella promiscuità. Sarà difficile farle uscire da questo tunnel, l’eco delle polemiche sul caso di Vittoria forse non arriverà alle loro orecchie. Chi le volesse salvare dovrebbe portarle fuori dai tuguri in cui vivono, ospitarle in case albergo e portarle al lavoro con i pullmini. Costa ma non è impossibile. L’Italia del 2014, la società civile che ha imposto le quote rosa, sarà capace di questo gesto di civiltà?