La Stampa - TuttoScienze, 22 ottobre 2014
La nuova generazione di Ogm, a imitazione della natura. Così la tecnologia cerca di superare paure e polemiche. Ma perché l’Ue ferma la ricerca d’avanguardia?
Sin da quando, parecchi millenni fa, si è dedicato all’agricoltura abbandonando la vita nomadica da cacciatore, l’uomo è evoluto assieme alle piante e agli animali, di cui ha cominciato a nutrirsi, modificandoli attraverso un’evoluzione accelerata, determinata dai processi di selezione artificiale a cui li ha sottoposti per renderli più produttivi e più adatti all’alimentazione.
Nel tempo si sono via via modificati sia i metodi della selezione, che hanno sempre più tratto vantaggio dai progressi scientifico-tecnologici, sia gli obiettivi della selezione, ossia le caratteristiche che si desideravano migliorare. Ad esempio in tempi più vicini a noi, oltre a produttività e qualità ed in alcuni casi a discapito di quest’ultima, si è selezionato per la possibilità di conservare quanto più a lungo possibile frutta e verdura ed ancora più recentemente si sono iniziate a privilegiare caratteristiche che portassero ad una maggiore sostenibilità del sistema agricolo: un sistema che in passato ha consumato grandi risorse e prodotto un notevole impatto sull’ambiente.
Andando avanti, la sfida si farà ancora più ardua. A fronte di una popolazione mondiale in costante aumento, sia in termini numerici sia di fabbisogno alimentare, e di una superficie dedicata all’agricoltura che non potrà aumentare, se non si vogliono sacrificare interi ecosistemi, sarà necessario riuscire a produrre di più (secondo stime Unep almeno il 50% entro il 2050), consumando meno acqua, meno energia, meno fertilizzanti, meno pesticidi e fungicidi e, se possibile, producendo alimenti con migliori qualità nutrizionali.
In Italia sembra che si sia diffusa la convinzione che tutto ciò si possa ottenere senza ulteriormente andare a modificare le piante di cui ci nutriamo e, anzi, tornando indietro per recuperare le varietà del buon tempo andato, quando la produttività era sicuramente di molto inferiore e l’ambiente molto diverso. Questa apparente opposizione al miglioramento genetico delle piante è ancora più sorprendente, se si considera che gli strumenti del miglioramento sono andati enormemente affinandosi nel tempo grazie ai progressi della scienza biologica e della genetica.
A partire dal processo di addomesticamento delle piante coltivate che l’uomo ha guidato, trasformandole rispetto ai loro progenitori selvatici, si sono affermati prima i metodi di incrocio e selezione, a cui la genetica ha dato delle basi teoriche e quantitative, e poi i metodi di mutagenesi indotta da sostanze chimiche o fisiche e, infine, grazie allo sviluppo della genetica molecolare, i metodi di ingegneria genetica che hanno portato, fra gli altri, alla produzione di quelli che vengono chiamati Ogm, organismi geneticamente modificati. Senza voler entrare nell’aspra discussione che ha investito gli Ogm potremmo dire che si sta discutendo sul passato invece che guardare al futuro.
Gli Ogm di cui tanto si parla, infatti, sono il risultato di una tecnologia che ha ormai 30 anni - la trasformazione genetica - ma nel frattempo la scienza è andata avanti, portando allo sviluppo di metodi sempre più precisi di modificazione del patrimonio genetico di piante ed animali. Sono in fase di sviluppo avanzato tecnologie che consentono di modificare in maniera mirata singoli geni ed in particolare singole basi del Dna all’interno dei geni per ottenere le variazioni desiderate, quali l’inattivazione del gene o la modulazione della sua attività od espressione. Tutto ciò in maniera del tutto analoga a quanto avviene naturalmente tramite la mutazione spontanea e senza che vi sia incorporazione di Dna esogeno e quindi, secondo l’attuale definizione in uso nell’Unione Europea, senza che si debbano considerare Ogm.
Tali metodi sfruttano le conoscenze acquisite negli ultimi anni sui meccanismi molecolari alla base della ricombinazione e della «riparazione» del Dna. La più promettente tra queste tecnologie, chiamata «Crispr/Cas», utilizza un macchinario molecolare che molti batteri posseggono come primitivo sistema immunitario per difendersi da patogeni quali i virus, introducendo tagli in corrispondenza di punti specifici del loro Dna.
Ho fatto parte recentemente di un gruppo di lavoro dell’Efsa - l’agenzia europea con sede a Parma - incaricato dalla Commissione Europea di esaminare le nuove tecnologie di modificazione genetica e di esprimere un parere non vincolante in merito ai rischi per uomo, animali ed ambiente derivanti dal loro utilizzo, confrontando le piante ottenute con queste tecnologie con quelle ottenute con il miglioramento genetico tradizionale e con quelle definite oggi come Ogm. Arrivati ormai al termine di un lungo lavoro che ci aveva portati verso la raccomandazione che piante così ottenute siano trattate alla stregua di quelle ottenute tramite tecniche tradizionali, a meno che non vi sia l’inserzione di Dna da altre specie, ci siamo visti chiedere, senza molte spiegazioni, dalla stessa Commissione di restringere il nostro parere ai soli casi in cui tali tecniche vengono usate proprio per introdurre Dna esogeno: una decisione sorprendente, che ci ha lasciato a dir poco perplessi sulle vere intenzioni di parlare di tecnologie così promettenti e potenti, intavolando una discussione su basi scientifiche solide. Forse che qualcuno in Europa ha paura del progresso scientifico?
Usando dei paragoni presi dalla medicina, potremmo dire che, con l’avvento della genetica molecolare ed ancora più dei nuovi metodi di modificazione genetica, siamo passati dalla chirurgia invasiva del tipo «taglio grande, grande chirurgo» alla laparoscopia non invasiva o dalla chemioterapia diretta a tutte le cellule in rapida proliferazione, incluse quelle sane, a quella che fa uso di anticorpi monoclonali mirati sulle sole cellule tumorali. Chi vorrebbe tornare indietro ai tempi in cui per avere la modificazione desiderata dovevamo sperare nel caso e nei grandi numeri (la mutazione spontanea) o sparare alla cieca, sperando che almeno uno delle migliaia di proiettili andasse a bersaglio (la mutazione indotta chimicamente o fisicamente)?
O forse vorremmo rinunciare a priori alla possibilità di modificare le piante per renderle più resistenti ai loro nemici, sia che siano funghi o batteri o virus o insetti, senza dover ricorrere alla chimica o per renderle più tolleranti alla siccità o più capaci di sfruttare le sostanze nutritive nei terreni? Se la risposta è sì, la vera domanda non è perché, ma «cui prodest?».