La Stampa - TuttoScienze, 22 ottobre 2014
Al Festival della Scienza di Genova gli esperti ci racconteranno tutta la catena di errori che ha scatenato il virus Ebola
«Non credo che moriremo di Ebola. Mi preoccupano molto di più i virus influenzali, quelli che si trasmettono con sinistra facilità. Per via aerea».
David Quammen parla dalla sua casa nel Montana - lontano da tutti, anche dai virus globe-trotter - e il prossimo 26 ottobre sarà al Festival della Scienza di Genova per una lezione che si annuncia imperdibile: «Pandemie. Una corsa contro il tempo». Con lui arriva il suo ultimo best-seller, «Spillover», appena tradotto da Adelphi, dedicato ai microrganismi che ci vogliono morti. Per loro - dirà Quammen - siamo prede perfette: incredibilmente numerosi, in molti casi indifesi (nelle nazioni povere) e troppo spesso arroganti (in Occidente).
Ebola - racconta Quammen, considerato uno dei migliori divulgatori di scienza d’America - è l’icona dei poteri dei virus e delle debolezze di noi Sapiens. Lo dimostra già la sua controversa scoperta, nello Zaire, nel 1976. «Sono amico di Karl Johnson, lo specialista del “Center for Disease Control” di Atlanta: faceva parte del team che lo studiò sul campo per la prima volta. Peter Piot, ora con cattedra a Oxford, sostiene di essere stato il primo a identificarlo, ma dimentica di citare i colleghi che erano con lui». E la lite accademica non è casuale. Da allora Ebola non ha smesso di prendersi gioco degli umani: è riemerso e si è nascosto per una ventina di volte prima dell’ultima deflagrazione - che ci tiene con il fiato sospeso - e si è rapidamente circonfuso di un’aura horror che nemmeno l’Aids degli Anni 80 assunse: «Si è arrivati a dire e a ripetere che fa sanguinare a morte, sciogliendo addirittura le persone, ma non è proprio così».
Ebola ha sfruttato il disastro sanitario dell’Africa occidentale per espandersi e uccidere. Lo sa bene Quammen, avventurandosi in Congo sulle sue tracce, dove ha raccolto, tra le altre, la confessione «pulp» di un medico locale. Non solo il coraggioso dottore congolese doveva addentrarsi nella giungla per sezionare i resti in decomposizione dei gorilla e raccogliere campioni di tessuto e di sangue, ma sopportare anche le punture degli insetti che avevano appena banchettato sulle carcasse, oltre al ronzio di un interrogativo da far uscire di senno. Sempre lo stesso. «Tutte quelle maledette mosche mi hanno trasmesso l’Ebola?». Sul perché continuasse il medico-eroe ha balbettato una risposta niente affatto scontata: «Perché amo il mio lavoro».
Un caso di dedizione che fa a pugni con la clamorosa cecità di molti comportamenti. Se c’è un messaggio che galleggia sulle pagine di «Spillover» (ed è lo stesso ribadito da tanti scienziati), è chiaro e drammatico, come la logica di un contagio: «Non siamo ecologicamente separati dalle altre specie». È la vecchia verità darwiniana, spesso colpevolmente dimenticata, eppure più scintillante che mai nel XXI secolo: l’umanità è parte del regno naturale. Medici (eroi e non), contadini africani, broker newyorchesi, gorilla e virus sono altrettanti anelli della lunga catena della vita. Ogni ferita agli ecosistemi che ci custodiscono significa, prima o poi, un colpo inferto a noi stessi. Anche potenzialmente mortale. Il 60% delle infezioni che ci tormentano, infatti, sono di origine animale e le relazioni pericolose tra noi e gli animali ci stanno trasformando in reciproci mostri. Ecco perché - profetizza Quammen - il «Next Big One» si materializzerà. Non è questione di se, ma solo di quando.
È la Grande Pandemia. Globale e più devastante di qualsiasi crisi economico-finanziaria. Ebola - aggiunge - non è ancora l’apocalisse, ma «una specie di prova generale». La spiega così: «Se ci saranno milioni di morti o se al contrario riusciremo a reagire in tempo, per esempio contro una nuova forma killer di influenza, dipenderà da ciò che faremo e da ciò che non faremo». L’esito della sfida dipende da elementi eterogenei: la capacità di reazione della comunità scientifica e dei governi, ma anche l’accuratezza dei kit diagnostici, l’impegno a spendere risorse nella ricerca e nella prevenzione e allo stesso tempo la volontà - sottolinea - «di affrontare seriamente il problema dei virus». E, soprattutto, dipende «dal modo in cui riusciremo a mitigare l’impatto distruttivo della civiltà sul Pianeta».
Al momento - come rivelano i contagi all’ospedale di Dallas - abbiamo sbagliato molto. E i tagli al budget del «Center for Disease Control» di Atlanta - l’ente americano per il controllo e la prevenzione delle malattie - hanno abbassato le difese, anziché alzarle. E così si spiega anche la lapidaria mail appena depositata nel tablet di Quammen e firmata Karl Johnson. «Ebola? I feel so frustrated!».