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 2014  ottobre 16 Giovedì calendario

Non ci sarebbe stato De Gasperi senza Paolo VI, l’umile papa che diceva di sentirsi «una formica»

Paolo VI è un Papa dimenticato. Non ha schiere di devoti come Roncalli o Wojtyla. Eppure Papa Francesco si appresta a beatificarlo. Per lui è figura chiave della Chiesa contemporanea. Per capire il cattolicesimo del nostro tempo, si devono fare i conti con quel pontificato. Anche l’Italia ha un debito con lui. Montini aveva formato, durante il fascismo, gli universitari della Fuci: da quel vivaio sorse tanta classe dirigente democristiana. Inoltre Montini, da sostituto della Segreteria vaticana e collaboratore di Pio XII, appoggiò Alcide De Gasperi e la nascente Dc, accreditandoli presso il Papa, tanto da essere considerato da alcuni cofondatore del partito. Fu a fianco di De Gasperi nella «storia segreta», cioè i difficili rapporti di un politico laico con Pio XII. Fu vicino a Giorgio La Pira, che rese Firenze luogo di dialogo con l’Est comunista e le religioni, in tempi di guerra fredda e anatema. Montini ebbe un «genio politico» — afferma il filosofo Jean Guitton, suo amico — come costruttore graduale di nuovi processi storici. 
È stato un accorto e tenace lottatore. Cresciuto nel laboratorio religioso e civile di Brescia d’inizio secolo, esprimeva uno spirito (fedele e aperto) nel confronto con lo spirito «romano» di una Chiesa-baluardo. Per lui bisognava cambiare. Con questa prospettiva salì i gradini della carriera ecclesiastica, prudente e convinto, percepito come un estraneo pericoloso dal «partito romano» dominante in Curia. Non così da Pio XII. Tuttavia, nel 1954, i «romani» riuscirono ad allontanarlo, promuovendolo arcivescovo di Milano. Per lui fu un esilio. Pensava che una riforma della Chiesa dovesse venire dal centro, da una Roma rinnovata. Ma Giovanni XXIII lo stupì convocando il Concilio: «Quel sant’uomo non si rende conto che si mette in un vespaio», confidò Montini. Eletto Papa, però, fu l’architetto del Vaticano II e della sua recezione. 
Nel 1963 — per l’ultima volta — il «partito romano» (con gli spagnoli e altri) provò a bloccarlo, rendendone difficile l’elezione in conclave. Il primo gesto del neoeletto Papa fu pacificatore: si recò al collegio spagnolo per visitare un cardinale iberico ammalato. Volle presto una profonda riforma della Curia, realizzata in due anni dopo la fine del Concilio: una Roma autorevole e rinnovata, collegata alle conferenze episcopali, doveva far crescere il messaggio conciliare tra quello che si chiamava ormai il «popolo di Dio». Una Chiesa conciliare in dialogo — parola chiave montiniana — con il mondo... 
Bisognava rinnovarsi per presentare la fede a un mondo cambiato. Ma il disegno fu travolto dalla corrente tumultuosa e contestataria del Sessantotto. La Chiesa divenne conflittuale, tanto da far temere rotture. Per i progressisti il Papa era un freno. Per i conservatori, il responsabile della crisi: i preti lasciavano il ministero, i seminari e i conventi si svuotavano, l’autorità era contestata, la gente si secolarizzava. Divenne impopolare, considerato amletico. Lo chiamavano «Paolo Mesto». Ne soffriva. Non cercò però rifugio in un autoritarismo nostalgico; tenne ferma la linea conciliare. Sembrava vedere oltre la tempesta che riempì molto del suo pontificato, convinto che c’era una pagina nuova da scrivere nella storia della Chiesa, anche se i frutti non si vedevano ancora. 
Aprì nuovi scenari: i viaggi intercontinentali, il dialogo con i cristiani e le religioni. Presentò la Chiesa dalla tribuna dell’Onu, non maestra di civiltà, ma esperta di umanità. Nel 1970, prima del viaggio in Asia, confidò il senso del suo limite: «Ma ecco — disse — un altro personaggio. Piccolo come una formica, debole, inerme... Egli cerca di farsi largo in mezzo alla marea delle genti, tenta di dire una parola... il Papa osa misurarsi con gli uomini. Davide e Golia? Don Chisciotte...». 
Un Papa poteva esprimersi così? Montini si sentiva un piccolo uomo moderno nella marea della complessità, ma non rinunciò a scrivere una storia nuova. Un uomo di Chiesa, appassionato al governo come servizio. Un italiano dall’apertura universale, il contrario della caricatura dell’«italiano». Anzi grande espressione di un’umanità italiana novecentesca. Senza grandeur, schivo. 
Se ne andò in punta di piedi, nel 1978, affranto dall’assassinio di Moro e dall’impotenza di quei giorni. Anche la sua Italia democratica sembrava scossa. L’ultimo gesto fu andare sulla tomba del cardinale Pizzardo, suo oppositore: «Riconciliazione è un valore cristiano anche per un Papa», disse a un giornalista. Poi febbricitante tornò a Castelgandolfo e morì nel riserbo di una calda estate.