Corriere della Sera, 15 ottobre 2014
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Per sciogliere il mistero della morte di Pantani bisogna far parlare Michael Mengozzi, l’uomo che alleva migliaia di polli sulle colline di Forlì
L’uomo della notte adesso si occupa di polli. Ne alleva centinaia di migliaia sulle colline di Forlì. Michael Mengozzi, amico e confidente di Marco Pantani, è sempre più personaggio chiave nella tragica epopea del Pirata. La riapertura dell’inchiesta sulla morte lo tira dentro una vicenda giudiziaria da cui era rimasto ai margini. Emergerebbe che l’uomo è arrivato sul luogo del delitto assieme alla polizia prima ancora che la notizia fosse pubblica e che sia stato fatto entrare nell’albergo, vietato a tutti, anche ai parenti. Si dice che con alcuni inquirenti avesse grande confidenza e che lui di questa storia sappia qualcosa di importante, che non vuole o non può dire.
Michael Mengozzi tiene da sempre i giornalisti lontani dalla sua casa di Predappio, quella dove Marco Pantani trascorse gli ultimi 6 mesi della sua vita. Michael di Marco per 6 mesi fu tutore, guardiano, confidente. Il loro rapporto lo sintetizza così: «Nel 1992 abbiamo entrambi 22 anni: lui corre in bici, io gestisco il mio primo locale notturno a Forlì. Sono l’uomo della notte. Lo conosco perché viene da me con i compagni a festeggiare la vittoria al Giro d’Italia dei dilettanti. A me del ciclismo non fregava niente ma andiamo avanti in parallelo, con le dovute proporzioni. Lui vince sempre di più, io costruisco nuovi locali e discoteche di successo. Avevo oltre 100 dipendenti. Con Marco ci si vedeva da me alle feste, si facevano giri assieme: uscivamo a pescare col mio sedici metri. Eravamo romagnoli di riviera col portafoglio gonfio: macchine potenti, belle donne, locali alla moda. Ci facevamo piacere quella vita da spacconi ma in realtà ci univa il carattere: due timidi cronici fuori posto quasi dappertutto».
La svolta nel rapporto arriva nell’estate del 2003. Pantani esce devastato dal Giro d’Italia, la cocaina è un incubo, gli spacciatori gli ronzano attorno come mosche. La famiglia, d’accordo col dottor Giovanni Greco che lo segue dal punto di vista terapeutico, decide che Marco va isolato dal mondo. Si trova il luogo adatto (una stanza al primo piano di questa casa di Predappio), si trova il tutore. «Sei mesi — racconta Mengozzi — io e lui assieme 24 ore al giorno, trascurando lavoro e famiglia. Sei mesi a pensare a come far passare la giornata per tenerlo lontano dalla coca. A caccia, a pesca, a camminare per ore e poi a bere caffè con gli anziani del bar per tirare a sera. Qualche giro in bici, con lui che mi spingeva con la forza di un motorino. E lunghi silenzi: lui parlava poco, io meno. Ci incantavamo davanti all’alba su una collina».
Sei mesi di salite e di cadute. «Per settimane era tranquillo. Poi ogni tanto usciva e tornava con la roba. Magari non me ne accorgevo subito, ma appena capivo gli mettevo sottosopra la stanza fino a quando la trovavo e poi la buttavo nel cesso davanti a lui. Si scusava scrivendo frasi da bambino su biglietti che ancora conservo». Poi le fughe. «Sono andato a riprenderlo tre volte — spiega Mengozzi — all’Hotel Touring di Milano, a Saturnia, dove ho dovuto sfondare la porta del residence dove alloggiava, e a Cuba, quando l’ho trovato più morto che vivo: aveva regalato bici e orologio a dei ragazzi e si era chiuso in una stanzetta. Mi ha lasciato una mattina di gennaio, dicendo che andava a chiudersi in clinica. Gli ho detto che se fosse morto di droga non sarei andato al suo funerale. Ho rispettato la promessa: non ci siamo mai più visti».
Mengozzi ha dei rimpianti? «Penso sempre cosa avrei potuto fare di più per lui, ma mi dico che forse non ero all’altezza della gravità del problema. Penso anche che negli ultimi 3 mesi della sua vita qui da me non l’ha cercato nessuno. Né amici, né parenti. Io sono un ignorante, ma ho capito che lui in quel periodo aveva solo me». Sugli sviluppi della nuova inchiesta non si tira indietro: «Quel 14 febbraio ero fuori a cena con mia moglie, sentita la notizia sono corso come un pazzo al Residence Le Rose. Sono arrivato subito. Investigatori ne ho conosciuti tanti, prima e dopo la morte di Marco: ero io che li chiamavo quando qualche spacciatore cominciava a ronzare attorno a casa. Quello che ho da dire l’ho detto al magistrato. Io sono quello che Marco ha cercato di salvarlo».