La Stampa, 14 ottobre 2014
Tags : Come combattere l’Ebola
Come deve essere la tuta protettiva antiEbola
Arginare il panico, adesso, sarà più difficile. Il secondo contagio di Ebola a Dallas fa paura perché è avvenuto dopo l’isolamento in ospedale del primo paziente, Thomas Eric Duncan. Dunque l’infermiera che si è ammalata ha commesso un errore, ma questo vuol dire che le persone colpite potrebbero essere molte più di quante stimate in principio, e soprattutto alimenta i dubbi sull’efficacia delle procedure usate per affrontare e fermare l’epidemia.
La notizia è stata diffusa dal Texas Department of State Health poco dopo le 5 del mattino di domenica: «Un’infermiera del Presbyterian Hospital, che aveva curato il paziente di Ebola ricoverato là, è risultata positiva ad un esame preliminare condotto nel laboratorio pubblico di Austin. Un test di conferma verrà effettuato dai Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta». Quindi il comunicato aggiungeva che la donna aveva segnalato di avere una leggera febbre venerdì notte, ed era stata subito isolata in attesa del risultato degli esami. Il problema è che questo caso è avvenuto fuori dal numero delle 48 persone tenute sotto controllo ogni giorno, perché ritenute più a rischio, e in teoria la donna aveva preso tutte le precauzioni necessarie a proteggersi.
Duncan era arrivato a Dallas dalla Liberia il 20 settembre, e il 25 si era sentito male. Era andato al Presbyterian Hospital perché era il più vicino a dove viveva, non perché fosse un ospedale specializzato nel trattamento dell’Ebola. I medici infatti non avevano riconosciuto i suoi sintomi e lo avevano rimandato a casa con degli antibiotici. Il 28 era tornato e stavolta era stato ricoverato, ma le cure erano cominciate troppo tardi e mercoledì è morto.
Una volta appurato il contagio, le autorità sanitarie avevano messo sotto controllo 48 persone, per fermare la catena della trasmissione. Di queste 10 erano considerate ad alto rischio, cioè i sanitari che avevano trattato Duncan prima che l’Ebola fosse riconosciuto, e i famigliari più stretti che erano stati messi in quarantena, a partire dalla fidanzata di Thomas, Louise Troh. Le altre 38 persone erano ritenute a basso rischio, perché avevano avuto interazioni più superficiali col malato, ma comunque dovevano misurare e comunicare la temperatura due volte al giorno, per intervenire subito nel caso mostrassero i primi sintomi.
L’infermiera contagiata non era in questo gruppo di 48 persone, perché aveva curato Duncan quando ormai si sapeva che aveva l’Ebola. Quindi aveva usato le protezioni e seguito i protocolli previsti. Eppure ha contratto lo stesso la malattia. Da qui la preoccupazione che le misure di sicurezza adottate non siano adeguate, e che il contagio sia già più diffuso.
Tom Frieden, capo dei Centers for Disease Control, ieri ha detto che «ad un certo punto è avvenuta una violazione dei protocolli». L’infermiera ha avuto molti contatti col paziente, per la dialisi e l’intubazione, e quelle sono tutte operazioni ad alto rischio. Non ricorda di aver commesso errori, ma anche solo il modo in cui si è tolta gli indumenti protettivi potrebbe averla messa in pericolo. «Siamo molto preoccupati - ha ammesso Frieden - e ci aspettiamo altri casi».
Le autorità sanitarie ieri hanno cercato di frenare il panico, ribadendo che le modalità di trasmissione dell’Ebola sono note e gli operatori sanno come fermare il contagio. La nuova paziente deve aver commesso un errore, e l’importante ora è individuarlo per non ripeterlo. L’infermiera dopo la sua infezione è entrata in contatto con una persona, che è stata aggiunta alla lista di quelle sotto controllo, ma in totale 50 sanitari hanno curato Duncan e quindi adesso sono tutti sotto osservazione. Se le protezioni adottate dalla loro collega non erano adeguate, il rischio diventa alto anche per loro. Le dimensioni della possibile epidemia in sostanza si allargano, anche se finora non sono stati registrati altri casi fra i 48 contatti originari. Per loro il periodo di incubazione di 21 giorni termina fra una settimana, ma per i nuovi soggetti a rischio l’attesa è appena cominciata.
L’infermiera abitava in Marquita Street, in un quartiere residenziale di Dallas, dove ieri sono arrivati gli esperti di malattie infettive per decontaminare la casa. La polizia ha circondato l’appartamento e il sindaco Mike Rawlings ha visitato il quartiere, per tranquillizzare gli abitanti. Colleen Watson, una vicina della donna, ha interpretato il sentimento di tutti quando ha commentato: «Mi spezza il cuore questa vicenda. Lei era solo una donna innocente, che si era occupata di qualcuno malato. Ha fatto il suo lavoro, probabilmente con tutta la gentilezza e l’empatia possibile».
Se Duncan era stato il primo paziente di Ebola identificato negli Stati Uniti, la nuova malata è il primo episodio di trasmissione sul territorio americano, e dimostra che qualcosa non sta funzionando. La linea dell’amministrazione resta che l’epidemia va bloccata in Africa, dove ha mandato 4.000 soldati per costruire ospedali da campo e portare aiuti, ma intanto ieri sono cominciati anche i controlli della temperatura dei passeggeri che arrivano dalla regione colpita in cinque aeroporti, a partire dal Kennedy di New York, dove un ragazzo è stato ricoverato per un falso allarme, mentre un altro caso sospetto è monitorato a Boston. L’emergenza rischia di diventare anche un caso politico, con il popolare conduttore radiofonico Rush Limbaugh che è arrivato ad accusare il presidente Obama di voler lasciar entrare il virus negli Usa per punirli della schiavitù. Uscite irresponsabili, che però rischiano di fomentare panico e reazioni fuori controllo.