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 2014  ottobre 12 Domenica calendario

Viaggio in Sierra Leone, il paese morto d’Ebola

Alla porta di imbarco gli altoparlanti diffondono la colonna sonora del dottor Zivago. Sarà un caso ma è, quella, la parte dell’aeroporto marocchino più periferica e lontana. Volo Casablanca-Monrovia con scalo a Freetown: accesso diretto a Ebolaland. Eppure l’aereo è completo. Solo due compagnie hanno mantenuto i collegamenti con questi Paesi. Mi guardo attorno, siamo una decina di occidentali, medici o cooperanti, alcuni indiani e libanesi. Poi lavoratori che tornano dagli Emirati, uno porta un berretto con inopportuni disegni di teschi; e signore avvolte nei loro coloratissimi vestiti.
L’Africa in perenne migrazione anche aerea con il trolley che cede, tra i bagagli a mano, al fagotto, alla sporta, al sacco e tutti corrono verso l’aereo come se i posti non fossero assegnati in anticipo, e ci fosse il rischio di restare a terra. Le hostess marocchine prendono i talloncini con prudenti guanti di gomma, in classe business viaggiano solo due funzionari della Organizzazione mondiale della sanità, che osservano lo sfilare dei passeggeri verso l’economica con occhio indagatore.
Atterriamo a Freetown: ci accolgono due grandi bidoni di clorina, l’acqua cola a fiumi sull’asfalto, ci mettiamo in fila paziente per lavarci le mani: «Ebola out» ingiunge un cartello perentorio che presiede all’abluzione moderatamente salvifica. Una infermiera ci attende per misurare la temperatura: 36.5, mi mostra, e la segna su un modulo da compilare. Contiene una infinità di domande: l’ultima febbre, caso di vomito, diarrea...
In questo momento pavento la Sierra Leone. Perché ho accettato di prendere questo aereo? La terra dell’Ebola, dove la vita è appesa a fili insignificanti, mi si apre finalmente di fronte come un abisso, qualcosa in cui ci si può precipitare senza avere l’impressione di ferirsi, un abisso madre, un precipizio di ombra antico come l’uomo e la peste, un imbuto infinito in cui ti infili come un viaggio qualsiasi. Traccio una lunga perentoria serie di no a tutte le domande ed esco nella notte di Freetown.
Fuori mi attende il dottor Giovanni Putoto, epidemiologo di «Medici con l’Africa Cuamm», ong padovana con mezzo secolo di storia straordinaria a fianco dei Paesi africani più derelitti. Qui sono in un ospedale che serve un territorio ai confini con la Liberia di 350 mila persone dove infuria ora l’epidemia. È l’aria che mi annuncia che sono altrove, la conosco, la annuso e mi annusa, l’aria africana calda di erbe macerate, di animali, di fogne aperte, disfatta e ingenua, che eccita con la sua gravezza generatrice di fungosità, di muffe, di putrefazioni, di malariche febbri. Sporca e vitale, purulenta e dolciastra, putrefatta e infantile.
L’aeroporto è su un’isola, bisogna attraversare la baia su un ferry boat per arrivare nella capitale. Il dottore ne approfitta per aggiornarmi sulle cifre sempre più gravi della epidemia: Ebola avanza a grandi passi verso gli agglomerati urbani, scavalca le frontiere sui passi di gente in perenne cammino, le cifre certificate di 300 morti alla settimana devono essere probabilmente aumentate di due tre volte. Il mare è un poco agitato mentre lampi continui incendiano le colline della città e la foresta; le onde si innalzano e si accavallano contro le palafitte del pontile di approdo, la risacca si gonfia e si sgonfia a vicenda, tumultuando. Le città di notte sono deboli mormorii portati dal vento, e forti urli da bastimenti invisibili, il rumore che sale dal mare e da una folla in movimento che resta invisibile.
È con l’autista che commetto l’errore: gli allungo la mano, lui si ritrae stupefatto. Qui non si usa più, è vietato come una scortesia che può uccidere. Il contagio, le secrezioni, le bave e i sudori che corrompono: da questo momento in poi Ebola è cosa mia, finora era qualcosa di cui avevo sentito parlare: lontana, vaga come i ricordi di Lucrezio, gli ateniesi che si battevano tra loro tra gli sfrigolii delle fiaccole sulle spiagge per contendersi lo spazio per le tombe dei morti innumerevoli. Adesso un sentimento così assoluto come la separazione diventa comune con tutto questo popolo sventurato come la paura. Prigionieri di Ebola sì, in questa parte del mondo che deve accettare di vivere giorno per giorno e sola di fronte al cielo.
Sull’aereo il giovane che era seduto accanto a me mi ha detto: noi africani amiamo stare assieme, ora tutto sta cambiando, abbiamo paura dell’altro, quello che era amico sospettiamo possa portarci la morte. Da Ebola un giorno forse usciremo ma non saremo più noi stessi…
Ebola ce l’ho davanti quando il dottore mi racconta come si muore: l’agonia subdola e crudele ti uccide con una serie di emorragie brutali, dal naso, dagli occhi, dalla bocca ti esce la vita e fino all’ultimo il malato è cosciente.
All’alba la città si scopre: una catena di colli verdi e dolci vestiti di un opulento manto di alberi e rosseggiante di tetti che scende dolcemente al mare nel mattino afoso e pregno di acqua e di nebbietta. Nelle vie in salita la folla vi formicola e forma risucchi e correnti che turbinano lentamente ai crocicchi e l’occhio vi si perde, attorno all’immenso albero che vide, si dice, la tratta degli schiavi. Ebola dove è dunque? È negli atti, nei gesti, nelle cose. Da giugno le scuole sono chiuse e non riapriranno, forse, che a primavera, un altro anno che se ne va dopo quelli perduti per la guerra civile. Le miniere di diamanti, bauxite, ferro sono chiuse, le società che le sfruttano hanno fatto partire i dirigenti occidentali, e il prodotto interno lordo di uno dei Paesi più poveri è arretrato quasi di dieci punti. Tutti i raduni pubblici sono vietati, perfino il football che questi ex sudditi di sua maestà britannica adorano: le partite casalinghe della nazionale per la coppa d’Africa in corso si giocano in Congo. I prezzi, in mercati ormai semideserti per la paura sono aumentati di trenta volte, un pacchetto di acqua pura costava, prima di ebola, 100 leones, oggi costa 300 in un Paese dove si vive con un euro al giorno.
Anche il commercio e lo sport sono morti di Ebola. I giornali e la televisione non hanno più nulla da raccontare se non Ebola, si fanno venire i medici da fuori perché l’ondata del contagio ha spazzato via i pochi che c’erano. Tutti sono stati separati dal resto del mondo, ancor più di quanto lo fossero prima, ma anche dalle loro abitudini e da quelli che amavano. E in questa solitudine sono costretti a vivere come animali braccati.
Andiamo da padre Maurizio, un giuseppino che è qui da venti anni, l’uomo che si è occupato dei piccoli mutilati della guerra civile. Perché Ebola ha fatto irruzione dopo una guerra infernale dove i ribelli per lasciare il marchio del loro passaggio e del loro potere nei villaggi ponevano alla gente una beffarda, crudele domanda: vuoi la manica lunga o la manica corta? E poi tagliavano con il machete il braccio all’altezza della spalla o del polso. E gettavano i moncherini ai cani.
Sul campo di calcio della parrocchia un gruppo di ragazzi gioca a pallone: hanno detto loro di toccare la palla, ma non i compagni…
Padre Maurizio mi mostra delle foto di bambini e ragazzi con le braccia e le mani amputate: uno su sei si è salvato. Ecco a questa bimba avevano tagliato le braccia quando aveva sette settimane, l’ho curata, poi è sparita, non riuscivo a trovarla. è tornata: mi ha detto: «Ora mi chiamo Maria, sono sposata e questi sono i miei bambini».
Entra una ragazza: il padre quando sono andato da lui mi ha detto guarda non ha le mani, vale meno di una capra, prenditela. L’ho fatta studiare è viva.
Ne entra un’altra, bella, ha braccia e mani. Solo dopo mi accorgo che ha un occhio di vetro e una orribile piaga attorno all’orbita: le avevano cavato l’occhio con una baionetta, in Italia i medici hanno fatto miracoli.
Ora il sacerdote si occupa dei malati di Ebola: di un cittadina alla periferia di Freetown che si chiama Waterloo: «Ebola è arrivata in silenzio, lì hanno trovato 45 cadaveri nelle case, ci sono 50 casi al giorno, 120 persone sono in isolamento chiusi nelle abitazioni. Ma in Europa c’è l’acqua e la luce, qui no, come possono sopravvivere senza cibo e bevande? I nostri volontari portano loro da mangiare. L’unica che si è mossa è la chiesa cattolica anche se qui i cristiani sono pochi; dai governi stranieri, dalle organizzazioni internazionali non è arrivata nemmeno una cipolla, e allora ci abbiamo pensato noi».
Attraversiamo Waterloo, l’autista accelera, guida come un pazzo, il clacson spiegato, passiamo davanti all’ospedale dove c’è stato il primo morto in città: vuole fuggire, andare via da questa zona maledetta, ha paura.
Imbocchiamo la strada che porta a Kenema, foreste infinite e monotone e villaggi, molti in quarantena o vuotati dall’epidemia. Villaggio è una parola arcadica, in realtà sono fragili, precari posatoi per uomini, non case, ma baracche di legno e fango e stoppie e qualche lamiera, stazioni di tappa per una carovaniera derelitta. È la strada su cui Ebola è avanzata seminando morte verso Freetown. Si succedono continui i posti di blocco, tronchi sulla strada, soldati e poliziotti con il mitra e sotto una baracca un addetto con il termometro laser che misura la temperatura. Schiacciando con il piede un bastone legato da una corda da un contenitore scende l’eterna clorina per lavarti le mani. La gente disciplinata si ferma e aspetta il suo turno, carica di cesti e bambini. Solo un ragazzo che ha tentato di sfuggire viene preso da un poliziotto e chiuso con furia in una capanna. Mi accorgo, ad ogni controllo, di diventare irrazionalmente più nervoso: e se la temperatura risultasse troppo alta? Ci sono sbalzi troppo repentini a ogni passaggio, questi termometri forse sono mal tarati… Di colpo attraversiamo un villaggio deserto, silenzioso, poche persone si aggirano tra case sbarrate, rifugiati nel fondo della loro malattia ci guardano con una sorta di sospettoso stupore. La maggior parte delle case sono in quarantena, le sorveglia l’esercito che setaccia anche le vie nella foresta.
Tutto è nato da un viaggiatore che veniva da Sud, si è sentito male, l’hanno ricoverato nella farmacia che ospita qui anche un paio di letti, funge da ricovero. È lui che ha contagiato tutto il villaggio. Storie tutte eguali, controlli di temperatura, clorina e cifre di morti: Ebola è drammaticamente monotona, ci si stanca della pietà quando è inutile.