la Repubblica, 22 agosto 2014
Tags : Kent Brantly e Nancy Writebol, i due americani che hanno sconfitto l’Ebola
Kent Brantly spiega come è sopravvissuto all’Ebola
Ha abbracciato 23 persone, i medici, gli impiegati, la moglie, gli infermieri, tutti quelli a portata di braccia e campo tv, il dottor Kent Brantly, il Lazzaro americano resuscitato dal sepolcro dell’Ebola, prima di lasciare l’ospedale.
Lo ha fatto con voluta ostentazione e lentezza, per gratitudine, certamente, ma soprattutto per dimostrare a chi guardava da casa che dalla nuova peste si può uscire senza portare più pericolo di contagio. Guarito dal Dio cristiano che ha pregato appassionatamente, dai magnifici mezzi e dai sanitari dell’ospedale dell’Emory University di Atlanta e forse da un medicinale sperimentale chiamato ZMapp, mai prima testato su umani.
Il miracolo dei “guariti zero”, il dottor Brantly e una sua infermiera missionaria infettata in Liberia già dimessa due giorni orsono, dei primi due pazienti non africani che siano scampati a un virus che uccide il 90% di chi infetta e il 50% di coloro che sono abbandonati senza assistenza ospedaliera, è una parabola di fede, di generosità, di tecnologia, di ricerca scientifica. Ed è il racconto dell’abisso che separa il sistema sanitario nelle nazioni dell’Africa Occidentale da quello di paesi altamente sviluppati come gli Stati Uniti.
Lo ZMapp, somministrato anche alla “guarita numero due”, l’infermiera volontaria Nancy Writebol, che aveva accompagnato il dottor Brantly ed è stata anch’essa dimessa con la richiesta della totale privacy, guarita, può essere stato il fattore decisivo per sconfiggere il virus, ma di questo non c’è alcuna certezza. Come ha avvertito Anthony Fauci, il celebre immunologo dal National institute of health di Washington, uno degli scopritori del retrovirus Hiv, «non possiamo sapere se ZMapp sia stato utile, inutile o addirittura dannoso».
Quello che possiamo sapere, perché l’ha detto lui stesso nella conferenza stampa al momento della dimissione dall’ospedale, è che tre settimane or sono, Kent Brantly era rassegnato a morire. Il 31 luglio le sue condizioni erano peggiorate. Le funzioni dei reni e del fegato, gli organi sotto l’attacco del virus emorragico, stavano cedendo e persino la fede del medico devotissima aveva vacillato: «Sono terrorizzato» aveva twittato a un amico e collega. «Sento che non ce la farò».
Fu allora, nella notte in cui anche il cristiano che si sentiva abbandonato dal Padre nel proprio Golgota, che il primario del reparto infettivi decise di scommettere la sua vita su un protocollo sperimentale e senza “road map”, senza le mappe tracciate dall’Organizzazione mondiale della sanità, l’Oms o dal Centro per il controllo delle malattie, il Cdc che si trova proprio nella stessa Atlanta. Gli fu trasfuso il sangue di un ragazzo liberiano di 14 anni che il dottor Brantley aveva aiutato a guarire dall’Ebola e le dosi dello ZMapp, prodotto dalla Mapp Biopharmaceuticals di San Diego. Era lo stesso medicinale somministrato invano al missionario spagnolo Miguel Pajares, morto il 12 agosto e Nancy Writebol. «Voglio dare il mio sangue al dottore che mi ha salvato la vita» aveva detto il ragazzo liberiano.
In 72 ore, le funzioni dei suoi organi erano migliorate, e la carica virale dell’Ebola diminuita. «Sentivo le preghiere non soltanto di mia moglie e dei miei tre figli attorno a me, ma quelle dei tanti, in Africa come negli Usa, che erano stati toccati da noi della “Borsa del Samaritano”», l’organizzazione missionaria cristiana alla quale appartiene e per la quale aveva accettato di praticare medicina dal 2012 tra Guinea, Liberia, Sierra Leone. Ci era andato pensando di essere una sorta di medico di famiglia, di dottore per tutte le stagioni, prima di essere risucchiato nel vortice dell’epidemia di Ebola.
Due settimane dopo la notte della disperazione tra luglio e agosto, tutti gli indicatori erano tornati nella norma, senza tracce di danni permanenti agli organi vitali. Il conteggio del virus nel sangue, fatto due volte al giorno secondo le indicazioni del Cdc segnalava zero. I suoi fluidi biologici erano puliti. E dopo un mese dal suo viaggio su un aereo speciale dall’Africa, chiuso in un comparto sigillato e accudito da infermieri nelle tute stagne per le 10 ore del volo, Kent Brantly è potuto uscire sulle proprie gambe, riabbracciare la moglie che soltanto per brevi momenti, quando riusciva a mettersi in piedi, aveva “toccato”, mani contro le mani, separato dal vetro della stanza isolata.
Dalla sua grotta supertecnologica, dove l’equipe medica aveva potuto seguire minuto per minuto le sue condizioni intervenendo per bloccare le crisi e stimolare i progresso, il Lazzaro resuscitato dall’Ebola è uscito ieri mattina alle 10 per pronunciare un breve discorso che aveva le intenzioni, la fede e il trasporto dei salmi e dei cori che da ragazzo aveva cantato nelle chiese della sua Abilene, in Texas. Sembrava riluttante a parlare di sé, della malattia, del risveglio su una branda dell’ospedale liberiano scosso dai brividi di una febbriciattola che anche lui, come tanti pazienti, aveva cercato di ignorare per sette giorni, quando era crollato con i sintomi ormai conclamati dell’infezione che trattava nei ricoverati.
«È il giorno del miracolo», ha detto. Il suo miracolo. È stata la preghiera, al Signore che ha ringraziato, lodato, glorificato come «diretta causa» della propria guarigione,
prima di rivolgersi ai colleghi e allo staff che lo avevano assistito. Ma nella testimonianza di quella fede che da bambino lo aveva chiamato a essere missionario prima di scegliere Medicina per essere portatore insieme della Bibbia e della borsa del medico, non c’erano la tracotanza né la protervia dei telepredicatori che promettono zolfo ai peccatori e miele ai contribuenti di elemosine. E questo perché Kent Brantly aveva già dimostrato la propria adesione al messaggio del Samaritano quando, in preda all’Ebola, aveva rifiutato i trasporto d’emergenza per lasciare posto all’infermiera, aspettando. E sapendo che il virus lo avrebbe consumato un poco alla volta di più, ogni ora.
Se ne è andato, con il suo pizzetto e la sua camicia azzurra “button down” da americano tranquillo, da texano senza spocchia e revolver, per ritrovare e reimparare a conoscere la famiglia che non aveva visto da un mese e che aveva avuto la prudenza di rimandare a casa, negli Usa prima che l’epidemia li toccasse. Ma dietro di lui, oltre gli abbracci rassicuranti, i sorrisi, la speranza, le paure che ancora circondano questa nuovo
incubo globale, resta il coro lontano e muto dei malati in Africa Occidentale, dei prigionieri di quei campi di quarantene dai quali, anche ieri, l’esercito liberiano ha respinto gente che cercava di fuggire a fucilate.
Le poche scorte di ZMapp sono state inviate ai governi africani delle nazioni più colpite. Altri preparati sono in via di sperimentazione, come i vaccini canadesi Vsv-Ebov, i medicinali preventivi da assumere prima che i sintomi si manifestino ma dopo il sospetto di contagio, come il Tkm della Tekmira. Mentre nella Università del Texas si lavora, con 26 milioni di dollari di soldi pubblici inviati dall’Istituto nazionale della salute, all’ipotesi di cocktail di farmaci, già usati per combattere e contenere l’avanzata del virus Hiv. Ma la verità non scientifica, non farmacologica, non immunologica che la sopravvivenza dei due “guariti zero” americani racconta è che la preghiera è più efficace quando sale da un magnifico ospedale americano, piuttosto che dai lazzaretti africani dove già quasi 1.400 pazienti africani sono morti.