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 2014  ottobre 14 Martedì calendario

Gino Strada è in Sierra Leone, per far la guerra all’Ebola. «Qui ci sono almeno 80-90 casi al giorno»

La prima sensazione? 
«Paura. Atterri a Freetown e vai in città con un barchino stracolmo, al collo un salvagente dove ci ha sudato chissà chi, sapendo che il sudore è un veicolo di trasmissione. Un brivido. Poi ti passa». 
Gino Strada, 66 anni, di Sesto San Giovanni, chirurgo di guerra, fondatore nel 1994 di Emergency, è da qualche giorno in Sierra Leone per l’epidemia Ebola. 
Quando passa la paura? 
«A casa, cioè in ospedale: vedi la gente che sta male e il problema diventa trovare un letto per una nuova paziente che non sai dove mettere. Qui ci sono almeno 80-90 nuovi casi al giorno». 
Come siete messi a capitale umano? 
«Emergency è in Sierra Leone dal 2001, il nostro centro chirurgico e pediatrico è l’unico aperto: abbiamo curato 500mila persone, ci lavorano 370 locali e 17 internazionali. Il 18 settembre abbiamo aperto un centro di trattamento per Ebola fuori Freetown: 22 posti letto, 100 operatori locali, 11 italiani, un serbo e un’americana». 
Che lavoro è? 
«Massacrante: nelle tute protettive arrivi ai 55-60 gradi, dopo mezz’ora hai perso due chili». 
Difficile trovare operatori? 
«Qui c’è bisogno di infermieri e anche di medici. Una quindicina di persone in Italia sono pronte a partire domattina». 
Perché non partono? 
«In Italia il governo può decidere di cambiare la Costituzione o di mandare armi ai curdi ma non di emanare un decreto, un foglietto, un sms in cui si dice: gli operatori che lavorano in strutture pubbliche o convenzionate possono andare in Africa per l’emergenza Ebola senza che questo debba interferire su contributi, assicurazioni, pensioni e tutto il resto. L’abbiamo fatto per lo tsunami e i terremoti. Ebola no perché è l’epidemia dei poveracci? Se c’è un’emergenza internazionale come dice l’Oms chi deve rispondere se non il personale internazionale?». 
Quanto ci vuole? 
«Stiamo parlando di mesi. Significa che parti alla prossima epidemia. E qui è questione di giorni. Avremo presto un nuovo ospedale. Lo costruiscono gli ingegneri dell’esercito britannico». 
Che progetto è? 
«Oggi pomeriggio andiamo a vedere il terreno. I genieri lo tirano su, noi lo gestiamo. Un campo da 90-100 posti. Adesso ci serve personale per farlo funzionare: quindici nostri medici e infermieri sono bloccati dalla burocrazia. Chiediamo al ministro della Salute Lorenzin di dichiarare l’emergenza in modo che chi vuole possa partire». 
Per Ebola non c’è cura. È frustrante per un chirurgo? 
«Tra una settimana partiamo con uno studio clinico per cercare una terapia. Le prove preliminari sono incoraggianti. Ad alcuni pazienti qui abbiamo somministrato come cura compassionevole un farmaco anti-aritmico di uso comune in cardiologia da oltre cinquant’anni: l’amiodarone. In studi di laboratorio si è visto che ha una forte capacità di impedire l’ingresso del virus nelle cellule. Non sono ancora stati fatti studi negli animali e tantomeno negli uomini. Ci siamo rivolti a un comitato etico indipendente che ha validato il protocollo, elaborato in collaborazione con l’Istituto Spallanzani e l’Irccs Asmn di Reggio Emilia: ci sembra giusto tentare uno studio con tutti i criteri di scientificità. Questa potrebbe essere una speranza per curare Ebola». 
In Occidente va in scena la grande paura. 
«Ok i controlli agli aeroporti e tutto il resto. Ma non dimentichiamoci dell’esperienza Aids. Da un focolaio è diventata una pandemia perché per 4 anni i governi e i potenti vari hanno discusso su chi fosse lo scopritore del virus perché in ballo c’erano i diritti su un eventuale vaccino. Dobbiamo agire: ognuno faccia la sua parte». 
Se si ammala si fa portare in Italia? 
«Le posso dire la mia risposta oggi: se becco Ebola mi faccio curare qua».