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 2014  ottobre 13 Lunedì calendario

Appunti sulla strage di Villarbasse

Grazia Il 4 marzo 1947 la Repubblica era già nata e i Costituenti erano pronti a scrivere l’articolo 27 che cancellava la pena capitale. Ma per tre feroci assassini, autori della strage Villarbasse [20 novembre del 1945], non si commosse nemmeno De Nicola che gli negava la grazia. I condannati a morte: Giovanni D’Ignoti, manovale di anni 31; Francesco La Barbera, garzone di cucina di anni 26; Giovanni Puleo, ciabattino di anni 32. Il quarto Pietro Lala (che si faceva chiamare Francesco Saporito), di anni 21, già pregiudicato per rapina, fu trovato morto a Mezzojuso nel 1946. I tre, arrivati al nord con la guerra, furono gli ultimi condannati a morte in Italia.

Villarbasse Giorgio Bocca: «Villarbasse è uno di quei villaggi della campagna torinese che sono immersi nella storia, ma ancora fuori dalla modernità. Rivoli con il suo castello è a cinque chilometri e in cinque chilometri si sale alla Sagra di San Michele, l’abbazia dei Longobardi dalle mura alte, e ai precipizi che non riuscirono a fermare Carlo Magno. Dentro la storia e dentro le leggende, che fanno da sfondo come le nebbioline delle colline di Giaveno che diedero i natali al corridore ciclista Martano. Ma sì, scriviamolo: perché le guerre si dimenticano, ma le memorie del Giro d’Italia restano».

Il delitto Il 20 novembre 1945, tra le 20 e le 20.30, quattro banditi siciliani Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti e Pietro Lala (che si faceva però chiamare Francesco Saporito), mascherati con dei tovaglioli e armati con due pistole, irrompono nella Cascina Simonetto, nella campagna torinese, dove il proprietario, l’avvocato Massimo Gianoli di anni 65, è raccolto, con i suoi 9 ospiti, attorno a una bella tavolata. Ci sono il fattore Antonio Ferrero, sua moglie Anna Varetto, il genero Renato Morra, la domestica Teresa Delfino, le serve Rosa Martinoli e Rosina Maffiotto e il loro mariti Gregorio Doleatto e Domenico Rosso e il nuovo lavorante Marcellino Gastaldi, venuto su per festeggiare l’assunzione e un bimbo di due anni. Per cena c’è la Bagna caoda. Lo stesso piatto che avevano mangiato i quattro delinquenti qualche sera prima all’ osteria torinese di via Cibrario, mentre progettavano il delitto.

Maschera I quattro banditi cercano la cassaforte, convinti che l’avvocato tenga in casa molti contanti, a dar loro questa certezza era stato Lala. Tempo prima, sotto mentite spoglie, aveva lavorato come mezzadro alla cascina. Ma qualcosa non va. Lala perde la maschera. Viganò: «Morra lo riconosce subito e si mette a ridere. Così viene legato per primo». Ha inizio la mattanza.

Cisterna Bocca: «L´operazione è preordinata, a catena. Puleo scende nella cantina, si piazza sull’orlo della cisterna con un randello grande e nodoso, gli portano le vittime una ad una. Puleo è un gigante, lascia che la vittima si avvicini alla cisterna e l´accoppa con un solo colpo micidiale di randello: si salverà solo il bambino, abbandonato in una stanza. Saranno uccisi anche i mariti di due delle domestiche, saliti alla cascina per cercare le mogli». Senza pietà 10 persone vengono accoppate a bastonate. Le mani legate con filo di ferro dietro la schiena, vengono gettate, ancora vive, nella cisterna per la raccolta d’acqua piovana nel cortile della stessa cascina. Riva e Viganò: «Quanto alle molte ferite dell’avvocato, Giovanni Puleo confermò l’ipotesi dell’Istituto di medicina legale. Gianoli “era troppo grosso e non passava attraverso il buco del pozzo” (Puleo continuava a chiamare pozzo la cisterna), era rimasto “per via della pancia mezzo fuori mezzo dentro”. Lala, una mano sul collo una sul cranio, si appoggiò sulla vittima e premette con tutto il suo peso; quindi fu necessario ricorrere al randello».

Bottino I quattro salgono al piano superiore e raccattano qualche spiccio (duecentomila lire), tre salami, tre paia di calze e dieci fazzoletti e se ne tornano alle loro vite. Prima però, Puleo butta nella vigna la sua giacca intrisa di sangue. Dirà poi: «Quella giacca mi ha svelato. Un professionista non lo avrebbe fatto. Bisognava essere proprio del mestiere» [Sta. 29/3/1946].

Corpi Per dieci giorni, poi, nulla si muove. Le finestre della cascina sono chiuse. Si dice che l’avvocato sia partito, non si sa per dove. Il 22 novembre però qualcosa cambia. La Stampa: «Ieri mattina, verso le 8, toccava a un giardiniere alle dipendenze dell’avvocato di trovare la cascina deserta. Egli, giunto al cancello, suonava ripetutamente, ma non ottenendo risposta e udendo pianti e invocazioni della bimbetta che tremante dal freddo ed impaurita, si aggirava per le stanze della cascina, scavalcava il cancello ed entrava. Appena si rese conto di quanto era accaduto, egli correva a Villarbasse a dare l’allarme».  Giorgio Bocca: «Eppure le tracce del delitto sono numerose, visibili: un contadino ha trovato nel prato un cappello sporco di sangue, poi un vicino ha notato altre macchie nella cantina e una giacca sul cui bavero è rimasto appuntato un biglietto con scritta la parola Caltanissetta, che vuol dire? Il capo partigiano Fasola setaccia la zona con i suoi amici e, finalmente, si ricorda della cantina. L´ingresso è coperto da uno strato di foglie, le rastrellano, entrano e arrivano alla cisterna. Fasola prende una pertica e cerca nella cisterna, i cadaveri sono al fondo uno accanto all’altro. Questa volta i carabinieri possono fare il loro mestiere, ricercano e arrestano i siciliani, pronti alla confessione».


Saporito I siciliani arrestati sono solo tre. Saporito, scrive Bocca, «è un bandito vero di professione, capisce che bisogna fuggire, prende il primo treno per Palermo, torna a Mezzojuso, il paese dove sono nati e cresciuti tutti e quattro, a farsi uccidere [a colpi di lupara, ndr] dalla Mafia: non per Villarbasse, ma per altri suoi assassinii o sgarbi». Saporito fu ritrovato cadavere l’11 aprile 1946 a Mezzojuso.

Processo Accertata la colpevolezza dei tre, la Corte d’Assise di Torino li condanna alla pena capitale. A nulla serve il ricorso in cassazione: il 29 novembre la Corte suprema conferma la sentenza. E, nonostante la possibilità di abrogare la pena di morte fosse già stata presa in considerazione, l’allora Presidente provvisorio di Stato Enrico De Nicola, mosso dall’indignazione dell’opinione pubblica per quel delitto così sanguinario, rifiuta la richiesta di grazia dei tre condannati.

Togliatti La sera prima dell’esecuzione, alla redazione torinese dell’Unità arriva una telefonata di Palmiro Togliatti (da lì a nove giorni avrebbe lasciato il ministero di Grazia e Giustizia). Risponde Davide Lajolo, per tutti Ulisse: «Mi parlò con voce incerta: "Non so, è necessario fucilare altra gente?". Io gli risposi: "Questi non sono politici, compagno. Vanno fucilati due volte: la gente li vuole morti e i partigiani anche". Dopo, avrei voluto richiamare Togliatti e dirgli che ci avevo ripensato. Non lo feci: un gesto di viltà» [Ettore Boffano 4/3/2007].

De Nicola Padre Ruggiero Cipolla, appartenente all’Ordine dei Frati Minori di San Francesco, a cui fu affidato il compito di seguire i condannati fino al momento dell’esecuzione. Rossotti: «L’incarico, grave, pesante, cadde sulle spalle di un frate. Doveva traghettare all’aldilà quei tre miserevoli, tre macellai del delitto. [...] I tre di Villarbasse, tutti e tre di Mezzojuso, pur nella loro rozzezza, analfabeti, parevano rendersene conto. Nel 1947 la realtà era cruda. Non c’era posto per la pietà davanti a quella cisterna, ai cadaveri appesi ai blocchi di cemento, all’agonia nel buio di quell’acqua ferma. Enrico De Nicola, ci dicono, valutò i ricorsi della difesa, ma andò a leggersi i fatti, i verbali, le ammissioni, la requisitoria di Trombi. E De Nicola, come il vecchio con cui si raffigura il tempo, disse anch’egli di no. Era l’ultima autorevole parola».

Sandali Padre Ruggiero solito calzare sandali semplici e marroni ai suoi piedi nudi, aveva lenti da miope, era vigoroso, con i capelli neri e lisci e un volto infantilmente paffuto [Ettore Boffano, Rep 2007].

Lupi Un giorno il francescano Ruggiero entra nella cella di Puleo e lo trova steso a terra sotto un lenzuolo sopra il quale ne ha appeso un altro come un catafalco. E dice al monaco: «Ho deciso di piangere la mia morte, tanto nessuno lo farà per me». Bocca: «Quando arriva la notizia che la Cassazione ha respinto la domanda di mutare la sentenza di morte, ululano come lupi per tutta la notte».

Esecuzione Il mattino di martedì 4 marzo 1947, La Nuova Stampa titola: I massacratori di Villarbasse fucilati stamane all’alba, anche se a quell’ora l’esecuzione non c’era ancora stata. La cronaca dell’esecuzione venne quindi ripresa mercoledì 5 marzo,in prima pagina, di spalla, con un titolo a tre colonne: Fucilazione di tre barbari. Tra i cronisti presenti all’esecuzione Giorgio Bocca: «Un maresciallo dei carabinieri mi porta al poligono delle basse di Stura dove, nei tempi felici dei Savoia, c’ era una delle riserve di caccia più vicine alla reggia. I lugubri preparativi sembrano ultimati: il plotone di esecuzione di trentasei uomini è schierato sul pendio che sta di fronte al muro dei condannati. C è il frate che va da una sedia all’ altra, cui i condannati sono legati, e mormora parole consolatrici che loro non ascoltano rannicchiati come orsi dietro il legno delle sedie, l’ultima illusoria protezione. Un signore in abito scuro, il questore suppongo, fa dei segni perché si affretti l’esecuzione e finisca questa maledetta grana. I soldati del plotone sono nervosi, a uno cade il fucile di mano: allora accorre l’ufficiale comandante con la sciarpa azzurra. Parte la scarica che, nel vuoto della campagna, è appena un crepitio, tanto che neanche i passeri si spaventano. Due dei condannati si afflosciano sulle sedie, Puleo non so come, torcendosi è riuscito a sollevarsi e a gridare qualcosa. Ma cosa? Un collega ha preso appunti. “Che cosa ha gridato?”. “Viva la Sicilia indipendente e libera”. Passano alcuni anni e mi telefona da Torino, dalla Fiat Mirafiori, un siciliano: “Sono del comitato Sicilia libera, le chiediamo di smentire i suoi scritti su Giovanni Puleo e i compagni uccisi nel complotto anti-siciliano di Villarbasse”. “Va bene - dico -, mandatemi del materiale”. Non si sono più fatti vivi».

Bare Padre Ruggiero: «Rimasi ancora un poco lassù per aiutare i becchini a ricomporre i loro corpi nelle bare. Poi, poiché tutte le auto erano già tornate in città, chiesi un posto sul furgone che li portava al cimitero generale. Detti un’ultima benedizione alle fosse nel Campo 1 e celebrai una messa in loro suffragio nella cappella del camposanto. Saranno state le nove, le nove e mezza. Era spuntato anche un po’ di sole».