il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2014
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Ebola: bisogna che la diagnosi sia fatta entro 48 ore, altrimenti non ci sono speranze
Quattro mila vittime e poco più di otto mila casi di persone infettate. Un bilancio di uno su due. L’epidemia di Ebola più drammatica della storia. Una psicosi da contagio che si estende a tutte le latitudini del mondo. Perché quello che fa più paura è la mancanza di una terapia specifica per uscirne vivi. Al momento, i farmaci e i vaccini studiati apposta per curare il virus sono stati sperimentati solo sugli animali e devono ancora superare i test sull’uomo. “Interveniamo con terapie di supporto: reidratazione del corpo, somministrazione di antidolorifici e antibiotici se ci sono altre infezioni”, spiega Antonino Di Caro, direttore del laboratorio di microbiologia dell’ospedale Spallanzani, centro di riferimento nazionale per l’Ebola, e team leader di due recenti spedizioni, una in Guinea, l’altra in Liberia, due degli stati africani più martoriati dalla malattia assieme alla Sierra Leone. “Sopravvive chi ha un sistema immunitario in grado di produrre gli anticorpi contro il virus”. Di Caro ha lavorato sul campo nelle strutture di Medici senza frontiere. “I CASI SOSPETTI vengono isolati nelle tende. Prima della diagnosi li teniamo a distanza tra di loro con dei separé. Ma poi non ci sono gli strumenti per monitorare le fasi successive della malattia”. Il periodo di incubazione è fulmineo, dai due giorni ai 21. “I farmaci testati sugli animali funzionano se presi entro 48 ore dalla manifestazione dei sintomi”. Ne esistono almeno due ad azione diretta sul virus che potrebbero presto entrare nella fase clinica dei test. Il dottore americano Kent Brantly e la sua infermiera, che hanno contratto l’ebola in Liberia, sono stati curati con lo Zmapp, un siero sperimentale ricavato dalle foglie di tabacco ogm. Le dosi però sono terminate. “Il punto è che non si sa se siano guariti davvero grazie al siero o per le condizioni fisiche non troppo compromesse” sottolinea il medico dello Spallanzani. Un siero anti-ebola, forse, avremmo già potuto averlo in commercio, ma quando nel 2007 il team di Antonio Lanzavecchia, direttore dell’Istituto di Biomedicine di Bellinzona, stava lavorando alla terapia nessuna industria farmaceutica era interessata: pochi pazienti, niente affari. E il progetto senza i finanziamenti sufficienti si è arenato. Solo negli ultimi mesi, con l’emergenza, sono partiti i test sugli animali negli Stati Uniti. “Si tratta di anticorpi prodotti in laboratorio iniettati nel paziente che a differenza del vaccino, attivo solo dopo alcune settimane, forniscono una protezione immediata. – spiega Lanzavecchia -. Siamo in attesa dei risultati, per ora non abbiamo niente da vendere e nessuna azienda si è fatta avanti”. SUL FRONTE dei vaccini, la società italiana di Biotech Okairos in collaborazione con il National Institute of Health (Usa), ne ha prodotto uno nei laboratori di Pomezia, recentemente approvato dalla Fda (l’agenzia americana per la regolamentazione dei farmaci) per trials clinici nell’uomo, iniziati oggi negli Stati Uniti e in UK. “Non so quando sarà pronto il vaccino. – dichiara Riccardo Cortese, il fondatore della società, che ha sede a Basilea ed è finanziata da capitali svizzeri, olandesi, tedeschi e americani -. I diritti di tutti i nostri vaccini – aggiunge -, compreso questo, li ha comprati la GlaxoSmithKline nel 2013”. Un’indagine uscita su Lancet un anno fa, dimostra che su 336 farmaci autorizzati tra il 2000 e il 2011, solo 4 (tre per la malaria e uno per la diarrea tropicale), cioè l’uno per cento, erano destinati alla cura delle malattie dei poveri.