La Domenica del Corriere, domenica 3 febbraio 1901, 3 ottobre 2014
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La morte del maestro Verdi
È morto Verdi.
Non ci dovrebbe essere bisogno di dire altro, di aggiungere altri particolari intorno alla sua vita, alla sua malattia, alla sua fine, se leggendo queste fatali parole: «è morto Verdi», tutti non provassero il bisogno di protestare esclamando: – impossibile! – Impossibile, sicuro, perché Verdi non poteva e non doveva morire; perché Verdi aveva il diritto di sottrarsi alla sorte di cui ogni altro l’uomo soggiace; perché Verdi nella mente e nella coscienza popolare erasì trasformato, era ormai assorto alla grandezza, alla indeterminatezza, alla eternità del mito.
Ed invece morto, pur troppo; morto dopo breve malattia, in quella camera dell’«Hotel Milan» ove trovasi dal 4 dicembre u. s. e dove da lunghi anni usava passare buona parte dell’inverno, preferendo così le nebbie e di rigidi freddi di Milano ai tepori della Riviera forse perché a Milano sono più vivi ricordi dei suoi giovani anni, sono più calde le memorie dei suoi primi trionfi.
Nella mattina del 21 gennaio ebbe un deliquio dal quale però parve presto riaversi; posto a letto le condizioni si aggravarono man mano assumendo la forma concreta e fatale di paralisi cerebrale; lottò ancora; ma né la fibra robustissima né i voti di tutta una città, di tutto un popolo accorrente ad ogni ora alla sua porta in angoscioso pellegrinaggio, l’interrogante commosso il telegrafo da ogni angolo d’Italia, valsero a vincere la ineguale battaglia: egli ispirava l’anima grande e buona.
Dinanzi alla tomba di Verdi, della più cara, della più pura, della più fulgida fra le glorie nostre, lo spirito si arresta impietrito, incapace anche di lacrime. Gli è che ognuno di noi perde col grande maestro una parte, la migliore parte di sé, perché ognuno ha vibrato, ha pianto, ha sorriso all’unisono con lui. Nella chiaroveggenza del dolore ognuno sente che se l’artista sommo, geniale, riassume in una ideale sintesi quanto v’ha di migliore nell’intelletto e nell’animo di nostra gente, si compendia nel suo nome glorioso un secolo di storia dell’arte come quello che, sorto al tempo delle fioriture merlate, dei gorgheggi sapienti, condusse la musa paesana ravvivata da un’onda possente di gagliarda sincerità fino alle vette più eccelse della passione, fino all’immortale sorriso del suo tramonto radioso, – ognuno sente che l’uomo in tema era nato e semplice dalla vita esemplare, dal cuore aperto ad ogni pietà, la cui modestia fiera e della seconda e rimprovero perenne ad esempio insieme, – appare una figura forse anche più grande nella sua serena austerità, poiché rappresenta il connubio di un nobile, più perfetto lo del genio con la virtù, sta ritto in alto come un faro luminoso, come un simbolo, additando a tutti, e specialmente agli eletti il cammino.
Giuseppe Verdi nacque il 10 ottobre 1813 a Ronco le, da Carlo, albergatore e da Luigia Utini, filatrici, come si apprende la fede di nascita, redatta in cattivo francese, causa le condizioni politiche dell’epoca, dal sindaco di Busseto. I suoi natali furono adunque assai modesti e fu solo dopo anni ed anni di stenti, di privazioni, di fatiche di studi e per solo merito del vivido prepotente ingegno e delle sue nobili virtù che gli riuscì a conquistare gloria e ricchezze.
Senza essere stato uno dei soliti fanciulli-prodigio, Verdi spiegò assai presto attitudini e passione per la musica, ed ancora conserva nella sua villa di Sant’Agata la spinetta dalla quale trasse i primi suoni. Fissatosi presto a Busseto egli vi trovò un protettore, il Barezzi, più tardi suo suocero, ed un buon insegnante, il Proveri.
Eretto a dirigere quella banda dopo esserne stato la grancassa, feci da essa a eseguire nel ’28 le sue prime composizioni. Ma poiché abbisognava di un ambiente più vasto e d’una istruzione più completa, ottenuta una piccola borsa, passava nel 1832 a Milano presentandosi tosto al Conservatorio per venirvi ammesso previo esame.
Fu detto e ripetuto che non riconoscendo in lui attitudine alla musica i maestri lo respinsero; e quantunque più d’uno abbia ciò smentito per difendere la memoria del direttore d’allora, il Basily, il fatto incredibile è vero: Verdi stesso lo racconta.
Forse fu quella una fortuna per lui; che è svincolato dalle pesanti pastoie dell’insegnamento ufficiale. Completare gli studi musicale sotto l’ottima direzione del Lavigna. Morto il Provesi,Verdi tornò a Busseto concorrendo ai posti rimasti vacanti di maestro ed organista della cappella e direttore della locale Società filarmonica, ma sebbene rimanesse realmente a capo di questa, un altro gli fu preferito ufficialmente.
Fu in quel tempo e precisamente nel 1835 che sposò Margherita Bareggi, figlia del suo amico e protettore, dalla quale ebbe presto due bambini. Poco dopo spinto da irrequiete indistinte aspirazioni abbandonava definitivamente Busseto per fissarsi a Milano dove riuscì a farsi conoscere dirigendo per un caso curioso la «Creazione» di Haydn alla Società filarmonica.
Fu un vero trionfo, tale da indurre il direttore del teatro, Masini, ad affidargli la composizione di un’opera. Così nacque l’«Oberto di S. Bonifacio», che in seguito alla morte dello stesso Masini fu dato invece alla scala per il consiglio dell’artista di canto Strepponi, che più tardi divenne moglie fedele al grande maestro, precedendolo solo di circa due anni nella tomba.
Eseguito il 17 novembre 1839, l’«Oberto» ottenne un buon successo. Non così avvenne dell’opera buffa «Un giorno di regno» (Scala 1840). Essa cadde completamente, forse anche perché la musica era stata scritta da in condizioni d’animo terribile. Nell’estate dell’anno stesso la morte infanzia aveva rapito al Verdi i suoi due bambini e la moglie, la dolce e mite Margherita!
Rimasto solo e povero, il maestro volle abbandonare l’arte per sempre e dedicarsi intero al suo dolore. Fu ventura che l’impresario Merelli, cui lo legava regolare con tratto, fossi un ostinato. Egli non lasciò requie al Verdi incitandolo di continuo a scrivere per distrarsi egli cacciò fra le mani a forza il libretto del «Nabucco». Il verso su cui cadde a caso il suo sguardo «Va pensiero sull’ali dorate» lo scuote, lo afferra: prosegue la lettura con ardore e l’estro sopito si rivesta, AN era di sprigionarsi in un fiume di melodia. In quella notte memorando il primato musicale d’Italia è assicurato per più di un altro mezzo secolo.
Da allora fu una serie di trionfi, una continua ascesa. Al «Nabucco» e seguito alla Scala nel marzo 1842 con successo entusiastico tennero dietro man mano «I Lombardi» (1843), «Ermani» e «Due Foscari» (’44) «Giovanna d’Arco» e «Alzira» (’45) «Attila» (’46) «Macbeth» e «I Masnadieri» (’47) «Il Corsaro» (’48) «La battaglia di Legnano» e «Luisa Muller» (’49) «Stiffelio» (’50) «Rigoletto» (’51) «Il Trovatore» e «La Traviata» (’53) «I Vespri Siciliani» (’55) «Simon Boccanegra» (’57) «Un ballo in maschera» (’59) «La forza del destino» (’62) «Don Carlos» (’67) «Aida» (’71) «Otello» (’87) e «Falstaff» (’93): tante pietre miliari nel cammino della gloria. Alle gemme scintillanti della sua corona occorre aggiungere la celebre «Messa di Requiem» ove l’espressione del dolore e del terrore assume proporzioni michelangiolesche……ha accenti che straziano e fanno piangere.
Fisicamente il grande Maestro era una di quelle figure che impongono irresistibilmente la venerazione e la simpatia. La gravissima età aveva steso un velo di dolcezza pensosa sulla fisionomia dei lineamenti caratteristici,, accentuati, forse un po’ duri, aveva acceso nello sguardo un raggio di mitezza e di bontà.
Semplicissimo di gusti e di abitudini egli conduceva come tutti i vecchi una vita regolare e metodica. Alzavasi verso le 9 e divideva il suo tempo fra la lettura, l’intima conversazione con gli amici e le uscite in carrozza. Nel tardo pomeriggio mentre era solo usava a sedere al pianoforte, rievocando le più belle ispirazione della sua vita, fantasticando, improvvisando. Fosse stato possibile raccogliere gli ultimi fiori del possente ingegno, mirabile per la resistenza fenomenale non meno che per la magnifica esuberanza: melodie dolcissime che adottò code la mano diafana dell’illustre vegliardo si sprigionavano dal pianoforte per svanire a guisa di scintillanti meteore nei campi dell’infinito?…
Chissà, forse non erano che memorie di giovinezza che ritornavano imprecise dietro le nebbie degli anni; forse anche gemme non prima sbocciate nella meravigliosa fioritura dell’arte verdiana…
Ad un’opera di delicata beneficenza, di alta pietà il Maestro dedicò le cure dei suoi ultimi anni raccomandando così ad essa il suo nome. Vogliamo alludere a quella «Casa di riposo per i musicisti» che per suo volere e con i suoi denari sorse da qualche anno a Milano, nel piazzale Michelangelo, presso porta Magenta. Forse che Verdi non fu quegli che più di qualunque altro procurò con i suoi lavori ad uno sterminato numero di artisti materiali guadagni ma che a sua volta trasse dalla loro cooperazione i più vistosi benefici?
È adunque a suoi cooperatori, a suoi interpreti ch’ Egli pensò fondando la «Casa di riposo» di cui riproduciamo il prospetto principale.
L’edificio, dello stile lombardo del 400, fu architettato da Camillo Boito. Comprende due soli piani nel corpo centrale e tre nelle due ali, ed occupa un’area di 4200 m² compreso un vasto giardino per gli uomini ed uno minore per le donne. Infatti l’istituto, già eletto in ente morale, potrà ospitare uomini e donne, 60 dei primi e 40 delle seconde. Le camere sono 50 ad un letto e 25 a due, oltre ad altri locali ad uso vestiboli, refettori, parlatori,amministrazione,ecc. Poi vi sono terrazze per l’estate dalle quali si gode la vista delle Alpi lontane, poi un oratorio ed un sontuoso salone per concerti.
Sopra la porta d’ingresso s’apre un finestrone arcuato a lobi e svelte colonnine che lo ripartiscono; e sopra di esso scintillano al sole i mosaici d’oro dallo sfondo d’un breve attico dove sono le parole: «Casa di riposo per i musicisti» ed alcuni putti e figure allegoriche a colori. Ne la eleganza di contorni e delle ornamentazioni limitata ai prospetti esterni, che ogni parte dell’edificio risponde a quel concetto di semplicità e di sobria eleganza, volute dal munifico donatore. Il salone da ritrovo o da concerti è specialmente sontuoso, decorato all’ingiro coi ritratti di Palestrina, Monteverde, Frescobaldi, Scarlatti, Marcello, Pergolese, Cimarosa e Rossini: tutti i santi padri di quell’arte che Verdi doveva contribuire ad onorare in sommo grado. Sotto all’oratorio, al pianterreno, havvi una cappelletta nella quale il corpo di Verdi troverà sepoltura accanto al cadavere della adoratissima sua seconda moglie Giuseppina Strepponi, che ora riposa nel cimitero monumentale di Milano.
La costruzione della «Casa di riposo per i musicisti» costò al maestro circa mezzo milione, e pochi giorni addietro Verdi firmava il regolare atto di donazione alla Casa stessa di due milioni e mezzo di lire perché possa sostenersi. Naturalmente il benefico istituto e ancora chiuso, il fondatore avendo deliberato che non possa aprirsi se non dopo la sua morte, desiderando esservi accolto per primo… ma morto!
Chissà quanti poveri musicisti caduti nell’indigenza dopo giorni di gloria benediranno così d’ora in avanti il buon cuore e la generosità del più grande fra tutti loro, del maestro per antonomasia, di Giuseppe Verdi.
Durante la breve fatale sua malattia – sei giorni appena – Verdi non richiese l’assistenza di alcun sacerdote, non già perché rifuggisse dalle consolazione che la religione può dare, ma perché doveva essere lontana dalla sua mente l’idea di mettersi a letto per non più abbandonarlo e più specialmente perché fin dapprincipio la paralisi cerebrale lo aveva reso quasi incosciente, lo aveva staccato, ha così dire, dalle cose della terra. Anche fra i sacerdoti egli vantava di vecchie fervidi amici, e tra essi Don Adalberto Catena, preposto di San Fedele a Milano: una delle più caratteristiche figure di quel clero lombardo dotto e liberale che ebbe per campione maggiore lo Stoppani, così poco amato là dove non si sa né si vuole conciliare l’amor di patria e la fede. Quando all’alba del 24 la morte di Verdi sembrava imminente, fu mandato a chiamare Don Catena, il quale accorse con la trepidazione dell’amico e con la sollecitudine del giovane, nonostante la grave età prossima a raggiungere l’ottantina.
Dopo gli ultimi conforti dati al morente, – come già nel’ 73 Don Catena aveva consolato l’agonia di un altro grande, di Alessandro Manzoni – il buon prevosto si intrattenne nella camera a pregare, e quando si ritirò il volto del glorioso malato appariva più sereno. Don Catena tornò da allora più e più volte all’hotel Milan nei giorni angosciosi che precedettero la fine del morto immortale.
Prima che quel momento arrivasse, quanta lotta fra lo spirito e la materia! Perché l’agonia fu lunga e dolorosa; anzi ad avviso dei medici, una delle più lunghe. Gli è che il corpo del glorioso vegliardo era forte, sano, come sano e forte durò l’intelletto fin proprio agli ultimi giorni. Dopo il miglioramento passeggero di giovedì scorso, che illuse congiunti ed ammiratori e permisi di concepire qualche speranza, verdi ricadde assopito né più si destò. Il sabato sera ebbe qualche sussulto: puoi mentre più alta incombeva la notte e nelle buie strade s’era fatto il deserto, il maestro spirò la grande anima, quietamente. Erano le 2,50. Verdi aveva cessato di soffrire.
Eppure no, non ci riesce di persuaderci di non dover più vedere l’alta austera figura del caro vecchio; no, la mente si rifiuta pensare alla sua scomparsa come le labbra a ripetere lettere fatali parole: Verdi è morto.
Aperto il testamento, fatto a Milano il 14 maggio 1900 ma depositato Busseto presso quel notaio Carrara, si trovarono in esso le disposizioni relative ai funerali. Qual era vivo – modesto estivo di chiassi, di feste, di suoni – tale verdi vuole essere in morte per non smentirsi mai. Infatti prescrisse che il trasporto della sua salma dovesse avvenire all’alba o dopo l’Ave Maria, che la bara fosse preceduta dalla croce, da due cieli e seguita da qualche sacerdote: niente esposizione della salma, niente cappelle ardenti, piente la paganità di are fumanti, niente canti, musiche, corone. Per quanto tale disposizione contrastasse lo col desiderio non pur dei milanesi, ma degli italiani tutti che avrebbero convertito volo che ieri il funerale in apoteosi, esse furono rigorosamente rispettate. E fu atto di civiltà e di umanità. Così il trasporto della salma benedetta avvenne mercoledì scorso, alle sette antim. Dall’hotel Milan la bara passò direttamente nella chiesetta che sorge quasi di contro dedicata a San Francesco da Paola, e di là sopra un carro di II classe al cimitero Monumentale per la tumulazione provvisoria in attesa della legge che autorizzi l’inumazione definitiva nella «Casa di riposo per i musicisti». Mancò quindi ogni pompa, ma viceversa al carro teneva dietro in muto corteo mezza Milano, e col cuore e con lo spirito il mondo intero, chè tutto il mondo Verdi del vizio e commosse.
È quasi soverchio aggiungere che già sorsero comitati per innalzare dei monumenti e murare delle lapidi in quasi tutte le città della penisola e in parecchie dell’estero; e molte vie molte piazze in molti teatri si intitoleranno a Lui, al contadinello delle Roncole sorto a meravigliosa grandezza per sola virtù d’ingegno.
Qualsiasi forma d’onoranza a Verdi non sembrerà mai eccessiva.