30 settembre 2014
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Articolo 18, la vittoria di Renzi su D’Alema e Bersani
Il meglio degli articoli di oggi sulla direzione del Pd di Emilia Patta sul Sole 24 Ore, Stefano Folli sul Sole 24 Ore, Giovanna Casadio su Repubblica, Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, Mario Ajello sul Messaggero, Fabrizio d’Esposito sul Fatto Quotidiano, Jena sulla Stampa, Francesca Schianchi sulla Stampa, Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera, Luca De Carolis sul Fatto Quotidiano, Goffredo De Marchis su Repubblica, Alessandro Trocino sul Corriere della Sera, Fabrizio Forquet sul Sole 24 Ore.
È finita secondo pronostico: ieri sera la direzione Pd ha approvato il documento sulla delega lavoro, che include l’abolizione dell’art. 18. Matteo Renzi incassa, nonostante la spaccatura della minoranza, e apre sui licenziamenti disciplinari, per i quali il reintegro andrebbe mantenuto [Patta, S24 30/9/2014].
Alla la spaccatura non c’è stata: la direzione vota il dispositivo finale illustrato dal responsabile economico Filippo Taddei con 130 sì, 11 astenuti e 20 contrari. Si astiene «per sottolineare le parziali aperture» una parte della minoranza con il capogruppo alla Camera Roberto Speranza e i nuovi membri della segreteria Enzo Amendola e Micaela Campana; vota contro la parte della minoranza che si può definire più “bersaniana”. Compreso Gianni Cuperlo e gli stessi Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema che in direzione hanno guidato la carica antirenziana [Patta, S24 30/9/2014].
Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l’essenza della riforma, ma ha gettato un po’ d’acqua sull’articolo 18 [Folli, S24 30/9/2014].
Nel parlamentino del Pd va in scena uno scontro drammatico su articolo 18, identità della sinistra, rapporto con l’impresa. Il conflitto tra la “vecchia guardia” e Renzi ha toni mai raggiunti. Eppure l’inizio della riunione è soft. Il segretario-premier si mostra determinato sull’abolizione dell’articolo 18: «No ai compromessi a tutti i costi, però questa è una riforma di sinistra, se la sinistra serve a difendere i lavoratori e non i totem, a difendere tutti e non qualcuno già garantito» [Casadio, Rep 30/9/2014].
Renzi, abituato a usare queste circostanze per parlare ai cittadini in streaming più che ai presenti, stavolta ha badato a ricompattare i suoi. Ha cercato di aprire alla minoranza interna. Ha esteso la sfera del reintegro rispetto a quanto era trapelato. Ha rilanciato un vecchio cavallo di battaglia del centrosinistra anni ’90, il Tfr in busta paga. Ha parlato di salario minimo e di risorse per ammortizzatori sociali e scuola. Soprattutto, si è detto disponibile a ricevere Cgil-Cisl-Uil a Palazzo Chigi, come finora non aveva mai fatto [Cazzullo, Cds 30/9].
Quando Massimo D’Alema però prende la parola, denunciando che Renzi fa «molte parole senza fondamento» e rincara con l’accusa di una «oratoria non attinente alla realtà», condendo l’attacco con sarcasmo e ironie, il Pd si ritrova in piena burrasca. Una tempesta nel partito che cresce con l’intervento di Pierluigi Bersani. Dall’ex segretario dem un j’accuse: «Noi sull’orlo del baratro non ci andiamo per l’articolo 18. Ci andiamo per il metodo Boffo, perché se uno dice la sua, deve poterla dire senza che gli venga tolta la dignità». La platea renziana rumoreggia. L’affondo di Civati è senza sconti: «Ho sentito Renzi dire cose di destra...» [Casadio, Rep 30/9/2014].
Quando sale sul palchetto e premette «tuttavia, diciamo...», s’è capito che Lui è tornato. D’Alema is back. Così. «Scusate – dice l’ex premier – il ricorso alla prosa», visto che Matteo visto da Max è uno che fa poesia, spara «affermazioni senza fondamento», confonde la realtà con gli «spot» e con gli «slogan» e s’è lanciato in un’azione di governo «non riflettuta» e «ho l’impressione che questo comincia ad essere percepito, almeno nella parte più qualificata dell’opinione pubblica». E ancora: «Non è obbligatorio sapere i fatti, ma sarebbe fortemente consigliabile studiarli. Devi anche pensare che ancora esistono persone che le cose le sanno, e non puoi pensare solo a quegli altri, Matteo...». Gelido, sferzante, aristocratico [Ajello, Mes 30/9/2014].
D’Alema ha 65 anni e la chioma d’argento, non più sale e pepe. Lo sberleffo a Renzi è continuo: «Anche in Gran Bretagna, laddove sono passati la Thatcher e Blair, il giudice può ordinare il reintegro. Solo noi vogliamo porci fuori dal consorzio civile?». Il crescendo finale è spettacolare e riesce a strappare un sorriso generale: «Stiglitz dice che il mercato del lavoro si riforma con la crescita non in recessione. Stiglitz forse è un vecchio rottame della sinistra ma ha vinto un premio Nobel, del quale i nostri giovani consiglieri non hanno ancora avuto la possibilità di essere insigniti» [D’Esposito, Fat 30/9/2014].
Non era poi così male
’sto D’Alema
[Jena, Sta 30/9/2014].
«Sa quanti giorni è stato al governo Bersani?». No, vicepresidente Giachetti. «2.571. Bindi 2.158. D’Alema un po’ meno, 1.271, ma ha fatto il presidente del Consiglio. Damiano, ex ministro del lavoro, 720 giorni. Chiti 1.132. E questi compagni ancora pontificano e propongono soluzioni miracolose come se non avessero mai potuto mettere alla prova i loro messaggi salvifici» [Schianchi, Sta].
«Li ho spianati»: al termine della riunione della direzione, Renzi è su di giri. La sua frase si riferisce a Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. È riuscito a staccare una buona parte della minoranza dalla «vecchia guardia». Non solo, è convinto che «ogni volta che Bersani e D’Alema si mettono insieme mi fanno un grande favore e un bello spot». «Massimo, in fondo – confida ai collaboratori – con tutto quel rancore ci sta dando una mano. Ve l’avevo detto che era ancora incavolato nero per la storia della nomina europea» [Meli, Cds 30/9/2014].
Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all’art. 18 non ha preso forma alcun partito “thatcheriano” [Folli, S24 30/9/2014].
«Mi chiedo come potranno rimanere assieme dopo una direzione del genere...». Renato Mannheimer guida l’istituto di sondaggi Ispo. La riunione dei democratici l’ha impressionata? «Dopo una direzione così difficile la parola scissione non mi pare così campata in aria». Lo scontro frontale chi avvantaggia a livello di consenso, Renzi o la minoranza? «Entrambe le parti, perché rafforza le reciproche identità e la partecipazione dei rispettivi elettorati. Ormai Renzi punta agli elettori di centro, e a un pezzo di quelli del centrodestra, che in assenza di alternative lo guardano con simpatia. Conta sul fatto che la parte più a sinistra, quella per così dire rimobilitata dal discorso di D’Alema, sia numericamente poco consistente» [De Carolis, Fat 30/9/2014].
Ora la partita si sposta al Senato però i numeri sono diversi. La legge delega sulla riforma e sull’articolo 18 arriva in aula domani per la discussione generale. Le votazioni potrebbero cominciare già giovedì o al massimo martedì della prossima settimana. Ci sono 7 emendamenti che smontano la riforma del governo e puntano conservare la regola così com’è seppure dopo una periodo di contratto a tutele crescenti. Le firme sotto questi emendamenti sono tra le 30 e le 40. Una cifra in grado di mandare abbondantemente in minoranza l’esecutivo costringendolo a cercare i voti di Forza Italia. «Non vogliamo buttare giù il governo – dice Stefano Fassina – ma obbligarlo a correggere la rotta». E se non c’è la correzione? «Ogni giorno ha la sua pena», risponde Fassina non smentendo una rottura definitiva [De Marchis, Rep 30/9/2014].
Il voto in Senato è appeso a soli 7 voti di scarto. Scomporre il puzzle del Partito democratico non è facile. Perché la geografia è complessa: risale a un’epoca pre renziana (…) I renziani «puri» (quelli della prima ora) sono scesi a 12 (Isabella De Monte è andata in Europa). Se a questi si aggiungono gli esponenti di AreaDem (Dario Franceschini), si arriva a una quarantina. Nella maggioranza vengono normalmente conteggiati anche i cinque Giovani Turchi (vicini a Matteo Orfini e Andrea Orlando). E con qualche maldipancia dovrebbero comunque votare a favore del Jobs act. Ci sono poi quelli che vengono indicati come lettiani (anche se Enrico Letta ha sciolto la sua corrente): sono tre [Trocino, Cds 30/9/2014].
Renzi può aver vinto la partita dell’articolo 18, ma i suoi oppositori sono convinti che avrà molte difficoltà a partorire una Finanziaria efficace e concreta. D’Alema lo ha spiegato: «20 miliardi prendendone uno qua e uno là, così si rischia di fare una manovra sbagliata». Come dire che l’autunno caldo il premier deve aspettarselo più dentro le aule parlamentari che nelle piazze [De Marchis, Rep 30/9/2014].
Non serve una riforma tanto per farla. Serve, finalmente, una incisiva rivoluzione delle regole del lavoro, per dare certezza alle imprese ed equità ai lavoratori. La “vittoria” politica di Renzi, se c’è stata, rischia allora di avere un costo, che è quello di un annacquamento della riforma, a cominciare proprio dall’articolo 18 [Forquet, S24 30/9/2014].
Fino a domenica scorsa la posizione di Renzi sembrava molto chiara: il reintegro deve restare solo per i casi di provata discriminazione. In tutte le altre situazioni meglio l’indennizzo monetario crescente con gli anni di durata del rapporto di lavoro. Ieri, invece, il reintegro è rispuntato per i casi di licenziamento disciplinare, riallargando il perimetro del 18, ma soprattutto ripristinando quell’incertezza nell’intervento del giudice che disincentiva l’impresa dall’usare il contratto a tempo indeterminato. È vero che nel dispositivo finale votato dalla direzione si parla di fissare le fattispecie relative ai licenziamenti disciplinari, ma qui si rischia di entrare in una vicenda già vissuta all’epoca della legge Fornero, quando l’intervento sull’articolo 18 fu progressivamente svuotato e reso di fatto inefficace [Forquet, S24 30/9/2014].
Non è vero che la riforma dell’articolo 18 sia una questione ideologica che non riguarda quasi nessuno. È una grande questione politica, che può cambiare la vita sociale, la mentalità, la cultura economica del Paese. Proprio per questo, a parte qualche eccezione, il modo in cui la direzione del Pd ha affrontato ieri il tema è apparso un po’ asfittico e autoreferenziale (…) La vera questione non è ammorbidire i contrasti interni a un partito; è portare il Paese a cogliere le opportunità che la riforma del mercato del lavoro porta con sé, accanto ai prezzi da pagare, che pure ci sono. Superare l’articolo 18, nella versione dello Statuto dei lavoratori e in quella uscita da una faticosa mediazione due anni fa, implica un’assunzione di responsabilità da parte di tutti [Cazzullo, Cds 30/9/2014].