Corriere della Sera, 18 settembre 2014
Tags : Anno 1901. Personaggi maschili. Italia. Letteratura
I palpiti di De Roberto per «Renata»
Sotto la voce Spasimo , titolo di un giallo passionale di Federico De Roberto, potrebbe essere rubricato anche il lungo carteggio tra lo scrittore siciliano e la gentildonna Ernesta Valle Ribera. Nello stesso anno, 1897, dell’uscita in volume del romanzo, ed esattamente il 29 maggio, i due si conoscono, nel salotto milanese di casa Borromeo, e si innamorano. «Da quel giorno, voglio dire da quella sera, cominciò la mia felicità», annoterà qualche mese dopo De Roberto. Lei è la ventunenne moglie dell’avvocato messinese Guido Ribera, madre di un bambino di 5 anni e titolare, nell’abitazione di via Romagnosi 3, di uno dei più prestigiosi salotti della mondanità intellettuale cittadina del tempo, in cui circolano giornalisti, scrittori, editori del calibro di Eugenio Torelli Viollier, Luigi Albertini, Domenico Oliva, Giuseppe Giacosa, Ugo Ojetti, Arrigo Boito, Emilio e Giuseppe Treves... Lui, trentaseienne, è l’affermato autore de I viceré , poco meno di un decennio prima introdotto dall’amico Verga negli ambienti che contano del capoluogo lombardo, collaboratore del «Corriere» da circa un anno.
Con i suoi poderosi e volitivi baffi a manubrio e con l’immancabile monocolo nell’occhio destro che gli ha fatto guadagnare l’appellativo scherzoso di Lord Caramella, il 4 ottobre De Roberto redige le tappe del calendario amoroso: il primo, il secondo, il terzo incontro in cinque giorni, il passaggio dal voi al tu (dopo un mese e mezzo!), i luoghi della passione più o meno clandestina: non solo via Romagnosi, ma via Jacini, via Pietro Verri, Porta Volta, Crescenzago... Due giorni dopo, il 6, Federico si trova già sul piroscafo «Birmania», che da Genova lo porta verso la sua Catania, e anche da lì scrive all’amata evocando le loro madeleines .
Tutto ciò lo veniamo a sapere scorrendo l’epistolario dei due amanti, che durerà fino al 1903, intensissimo nei primi cinque anni, poi lievemente diradato via via che la passione tende a intiepidirsi: è un corpus ingente, di 764 epistole, custodito nella Biblioteca regionale di Catania e che ora emerge integralmente grazie alle cure di Sarah Zappulla Muscarà e di Enzo Zappulla (Si dubita sempre delle cose più belle , Bompiani, pagine 2.132, e 35). Un carteggio di spasimi e di tormenti per la lontananza, di baci e di carezze a distanza, con il lasciarsi, il pensarsi e il ritrovarsi, di enfatiche e vibranti accensioni sensuali («tutta nuda nell’anima come l’ho vista e tenuta e baciata e bevuta e goduta tutta nuda nel corpo adorato e divino»), con gli scorci familiari e la vita quotidiana, le strategie, i timori — più che vere e proprie paure — di essere stanati: il marito di lei, per altro, sembra a tratti serenamente consapevole e ogni tanto entra nella corrispondenza per rivolgersi all’«Egregio amico». Senza dimenticare la tormentosa officina scrittoria di De Roberto, decisamente soggetta all’instabilità ondivaga della sua salute fisica e morale, accampata spesso a mo’ di giustificazione (o di alibi?) per le mancate promesse di raggiungere Ernesta, ribattezzata, nel codice amoroso, Renata (ovvero «rinata» all’amore), Nuccia, da un non proprio elegante «femminuccia», e ancora: Anima, Creatura sacra, Dolce Amor mio...
Più dell’amore, in realtà, poté la madre di lui, donna Marianna Asmundo Ferrara, che viene citata dal figlio con devozione e quasi con ansia adolescenziale, e la cui ombra lunga appare pressoché ad ogni pagina: è lei che in definitiva, lamentandosi della lontananza, gli impone di tornare a Catania: «perché è già molto tempo che sei fuori casa, perché viene l’inverno e tu sai che d’inverno ho bisogno di compagnia». Il tono è tassativo e Rico non riesce a sottrarsi al proprio «dovere» (starsene a Catania con lei), sicché le lettere sono un continuo tira e molla tra l’ardore amoroso e il senso di colpa filiale.
Il volume è ottimamente annotato per quanto riguarda le notizie storiche e bio-bibliografiche, ma è un peccato che per conoscere esattamente i pochi estremi ricostruibili della vita di Ernestina Emilia bisogna arrivare alla nota 1 della lettera 29: è lì che veniamo a sapere che la protagonista delle lettere è nata a Ventimiglia nel 1876, figlia di Giuseppe Valle, un impiegato di Valle Lomellina, e di Adelaide Corradi. Nulla sappiamo della sua cultura, ma è un fatto che De Roberto, malgrado tutta la misoginia che gli conosciamo, le si rivolge con estrema considerazione intellettuale, chiedendole consigli sul proprio lavoro ed accogliendoli non di rado, distratto com’è dai pressanti impegni giornalistici e dalle delusioni che ne derivano: a partire dalla promessa di Albertini, non mantenuta, di essere chiamato a Milano come redattore de La Lettura , il mensile che a partire dal 1901 verrà varato dal «Corriere» sotto la direzione di Giuseppe Giacosa e con l’aiuto di Alberto Albertini, fratello del direttore, che assumerà il ruolo previsto per De Roberto.
La rottura con Albertini, che Renata accusa di ingratitudine e villania, sopraggiunge nel 1902 (anche se la collaborazione si protrae stancamente fino al 1911), contribuendo non poco alla depressione di De Roberto e al definitivo tramonto della speranza di trasferirsi a Milano con una ragione professionale da far valere al cospetto della severa madre. Siamo ormai lontani dall’effervescenza degli anni precedenti, quando lo scrittore inviava alla sua Nuccia pacchi di libri da leggere, da Maupassant a Dostoevskij, da Zola a Tolstoj, sollecitandone pareri e impressioni. Letture che entravano a vivificare il suo work in progress , che costituisce uno dei motivi più interessanti del carteggio: a partire dalla prefazione alle novelle de Gli Amori , arditamente dedicata proprio a R.V., cioè alla signora Ribera-Valle, come terrà a precisare ironicamente il marito di lei in una lettera allo scrittore, ipotizzando tra i due almeno una «disquisizione letteraria» sul tema.
A proposito dell’officina, va anche segnalato il continuo accenno, dal 14 gennaio 1900, a quel «gran romanzo sociale», L’Imperio , ideale prosecuzione de I viceré , progetto a cui De Roberto lavora da anni e che adesso («se mi rimetterò in carreggiata») vorrebbe riprendere, vincendo la depressione e la malinconia, pur senza grandi speranze di farcela: «E questa è la mia vita, propriamente degna d’essere strozzata con tutt’e due le mani, se non fosse il ricordo, la visione, il pensiero e la speranza di Nuccia». Il romanzo, si sa, resterà in forma di abbozzo e uscirà postumo nel 1929. Ci sono poi le aspirazioni e le ambizioni teatrali, su cui Renata dà il meglio di sé, consigliando a Rico, in preda alla «follia del dubbio» a proposito della riduzione di Spasimo , di trasformare quel dramma «troppo pensato» in un testo più «parlato»: De Roberto le riconoscerà di averlo spronato più di chiunque altro a «correggere il difetto», rendendo il tutto «più rapido e movimentato ».
Va da sé che a far da sfondo alle lettere ci sono da una parte la Catania delle chiacchiere e delle passeggiate oziose a cui De Roberto si sente «inchiodato» e dall’altra la Milano intellettuale e mondana. I teatri: la Scala, il Manzoni, il Filodrammatici, il Lirico... I ritrovi più eleganti: il Biffi, il Cova, il Savini, i salotti con quella ritualità di ipocrisie e di sotterfugi, di detto e non detto, ma anche di sfrontatezza, da cui poteva nascere, talvolta, un vero delirio amoroso.