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 2014  settembre 04 Giovedì calendario

La mia amica Mona bambina per sempre (articolo di domenica 24/8/1980)

Corriere della Sera, lunedì 22 marzo 2010

Linda era andata a chiamarlo e dopo un po’ Charles Bukowski era comparso, fermo sulla porta, con gli occhi socchiusi e l’aria inequivocabile di chi vorrebbe trovarsi da un’altra parte: indossava sandali e bermuda che gli lasciavano scoperte le gambe di cui andava decisamente orgoglioso («Sono l’unica cosa bella che ho» diceva senza falsa modestia) e una camicia color kaki con le maniche corte. Guardava di sbieco, ma sorridendo con pazienza, il registratore o il blocco sul quale in macchina avevo annotato qualche domanda; aveva voluto sapere che domande gli avrei fatto e quando aveva sentito che non intendevo parlare né di letteratura né dei suoi colleghi scrittori si era rasserenato e mi aveva versato del vino in un raffinato calice di cristallo. «What do you mean?» – che cosa significa?’ mi aveva chiesto perplesso, quando gli avevo detto che ero astemia dalla nascita.

Milano, 8 ottobre 1983

A Milano avevo incontrato Keith Haring alla galleria di Salvatore Ala per una sua mostra di murales americani. In Italia non eravamo ancora abituati alla stranezza e alla grazia delle sue figure e dei suoi accostamenti. Non so se quella sera o un’altra avevamo cenato con lui e mi aveva raccontato che era stato con Bret Easton Ellis alla sua festa di laurea in uno degli alberghi per miliardari di New York. Keith Haring mi faceva molta tenerezza con la sua pittura, ma me ne ha fatta ancora di più quando ho saputo che era amico di questo grandissimo, giovanissimo scrittore, che naturalmente l’establishment letterario italiano disprezzava senza aver capito né aver cercato di capire che cosa avesse in mente di dire. Non mi provo neanche a dire con quanta angoscia ho saputo anni dopo che Keith Haring era morto di Aids.

Roma, 24 febbraio 1985

(...) Più o meno a questo punto avevano suonato il campanello ed era comparsa sulla porta una apparizione in jeans emaglietta così aderenti che sembravano una emanazione della pelle e destinati a coprire un corpo che pareva la caricatura di una bellissima ragazza. Senza dire una parola la comparsa si era sdraiata per terra davanti al televisore lasciando la schiena rivolta verso di noi. Erano i giorni che Federico Fellini mostrava in non ricordo che film l’immagine di tre fondoschiena di ragazze come esempio di come deve essere un fondoschiena per essere il meglio dei fondoschiena. Era chiaro che il fondoschiena di questa splendida ragazza era uno dei tre proiettati sul video e di nuovo era stata Adriana a risolvere il problema, gridando felice: «Ma tu sei Moana!» (e voleva dire Moana Pozzi), senza suscitare l’entusiasmo che aveva prodotto col suo couscous ma attirando sulla dolce Moana l’attenzione e soprattutto la simpatia di tutti. La ragazza aveva risposto col suo sorriso contagioso alla nostra ammirazione e il prince charmant del caseggiato si era immediatamente messo al suo servizio facendole una corte da manuale che Moana accettava senza stonature ma senza parlare.
Questa storia era continuata per circa tre quarti d’ora mentre noi mangiavamo il couscous distraendoci un po’ dai due innamorati e a questo punto Moana si era alzata per andare via. Le avevo chiesto: «Ma come fai a mettere i calzoni così aderenti?» e mi aveva risposto: «Li metto bagnati e aspetto che mi si asciughino addosso». Con questo messaggio si era accomiatata; e con questo messaggio era cominciata la mia amicizia con questa deliziosa creatura, durata fino alla sua morte troppo precoce e veramente troppo atroce.
Ero diventata sua amica; poi lei si era fidanzata con Alberto, uno studente di architettura padrone di un ristorante della piazza e la incontravo lì alla mattina quando mi sedevo nella loro terrazza a far finta di mangiare qualcosa per il lunch. Non aveva mai smesso di darmi del lei nonostante le mie insistenze e non aveva mai accettato di sedersi al mio tavolo: «Lei è una signora», mi diceva. Mi aveva raccontato, ed era vero, che suo padre aveva un enorme laboratorio farmaceutico e quando si era laureata in chimica le aveva assegnato il tavolo di direzione di un reparto, ma un’impiegata anziana le aveva fatto vedere, calcoli alla mano, tutto quello che avrebbe guadagnato, calcolando gli scatti dell’anzianità nel giro di trent’anni. Moana si era messa a piangere e, mi aveva raccontato, l’indomani aveva incontrato per caso Riccardo Schicchi e aveva accettato il suo invito a farsi vedere spogliata davanti alle macchine fotografiche. «A me piaceva vedermi nuda» mi aveva detto con quel suo visino da bambina buona e «Riccardo Schicchi in dieci giorni mi aveva fatto guadagnare il triplo di quello che avrei guadagnato in trent’anni secondo i calcoli di quella brava signorina».
La sua mi era sembrata veramente una storia esemplare e mi ero molto rammaricata di non avere più l’età per poterla imitare. Tutto sommato il rispetto che circondava Moana era molto maggiore di quello che mi dimostravano i miei cosiddetti colleghi universitari; ma non intendo fare confronti, intendo soltanto celebrare la grazia, l’eleganza, l’innocenza di questa ragazza così brava a comportarsi in due giri sociali così diversi quali erano quello di suo padre e quello di Schicchi. Ci incontravamo quasi ogni giorno al ristorante di Alberto, quando lei tardava Alberto diventava nervoso e lasciava cadere i piatti per terra, finché un giorno era comparsa con un vestito così rosso che era impossibile immaginarne uno più rosso, così scollato, così aderente, così da sera, che sembrava appena uscito da una fotografia di alta moda. Non ho mai saputo che cosa festeggiasse, ma l’aria estatica di Alberto mi faceva pensare il meglio. Spero che quando è morta, con la mamma vicino che l’accontentava quando le diceva piangendo: «Mammina, ho freddo, scaldami i piedini», la mamma le abbia fatto indossare piangendo come lei, con lo stesso amore, quel vestito rosso che le stava così bene.

Roma, 23 aprile 1987

Con mia grande emozione nel pomeriggio era venuto a casa mia, a Roma in via Lungara, Raymond Carver e gli avevo preparato un grande vassoio di bevande non alcoliche un po’ come dimostrazione di affetto ora che era riuscito con tanta forza di volontà a liberarsi dalla schiavitù dell’alcol. Tè caldo e freddo, aranciata, acqua tonica, lampone, credo che mi fossero sfuggiti pochi analcolici. Lui si era messo a ridere e chi lo conosceva sapeva che rideva di rado, aveva scelto il tè, ma non lo aveva bevuto, chissà come avrei dovuto prepararlo.

Milano, 18 dicembre 1991

Una sera ero in un ristorante di via Palermo allora caro ad alcuni di noi e stavo chiacchierando con Patrizia Runfola, le dicevo che ero molto angosciata perché tanti giovani volevano conoscermi per farsi aiutare a pubblicare i loro libri, ma io non avevo alcun potere per accontentarli. La signora che portava ai tavoli i mangiarini strani mi ha dato un biglietto che diceva: «Anch’io sono un giovane scrittore e anch’io vorrei conoscerla, ma i miei libri sono già pubblicati. Se vuole vedermi in faccia sono seduto alla sua destra». Naturalmente mi sono vergognata della mia arroganza, ho guardato a destra e ho visto un vecchio collega con i capelli bianchi, pensavo a uno scherzo; ma mentre ridevo con la mia amica, si era avvicinato Pier Vittorio Tondelli con i suoi due metri di altezza e quel modo non verbalizzabile di sorridere e mi aveva detto: «Sono io, ma ero seduto a sinistra, non a destra»; con una grazia indescrivibile, caro Pier, che non ho dimenticato mai.

Fernanda Pivano