L’espresso, giovedì 19 agosto 2004, 4 settembre 2014
Tags : Articoli su Moana Pozzi
Per le calde labbra di Moana entravano e uscivano meraviglie (articolo del 19/8/2004)
l’Espresso, giovedì 19 agosto 2004
Aveva trasformato un mestiere abbastanza tremendo in una specie di tesi di laurea permanente. Foucault, Derrida, abissi psicologici, massimalismi della fisicità. Parlava del suo corpo come di uno strumento tecnico, un’estensione della volontà da usare in modo estremo. Collezionava flirt e passioni di alto livello mondano, citandoli quasi sempre per nome e cognome nel suo libro diventato un cult. La filosofia di Moana (60 milioni certi di pubblicazione in proprio e 20 mila copie dichiarate di vendita): da Luciano De Crescenzo a Marco Tardelli, da Renzo Arbore a Massimo Troisi, da Francesco Nuti a Nicola Pietrangeli con tanto di voti per le loro qualità personali e amorose, voto minimo al grande centrocampista della Roma Falcao.
Eppure, fuori dalla mondanità romana e dal giro dei morti di fama, non aveva esitazioni a farsi accarezzare nuda, durante i suoi spettacoli furibondi e strampalati con Ramba, cioè Ileana Carusio, e l’altra puledra di razza della scuderia di Riccardo Schicchi, l’italo-tedesca Petra Scharbach, concedendosi a folle di gente sudata e male in arnese che allungava disperatamente le mani.
Talmente sensibile al richiamo della sessualità da girare metri e metri di pellicola su un’orgia con quattro maschi, per poi filare «a farmi scopare in bagno appoggiata a un lavandino» con il più attraente di questi, un tale Marc, passando dalla brutalità del film porno all’urgenza desiderante della realtà.
Così raccontava e si raccontava Moana Pozzi, pornostar, ideologa del sesso, attrice che interpretava se stessa, morta in un ospedale di Lione per un cancro al fegato dieci anni fa, a 33 anni. Adesso Mondadori pubblica un libro postumo, Il diario, a cura di Marco Giusti, e che uscirà a metà settembre.
Ma è ancora un mito, Moana? Una figura in grado di risvegliare qualche scintilla nell’immaginario di massa? «Dio mio, non riconosco più il mio corpo che amavo tanto», aveva confidato alla famiglia, chiedendo di essere cremata.
Era l’Italia degli anni Novanta, del post-Tangentopoli, del primo trionfo di Silvio Berlusconi, che pure non l’aveva voluta, al contrario di Antonio Ricci, nuda a ”Matrioska”, solo scarpe e orecchini. Allora Moana era l’icona possibile di un’Italia sospesa.
Una ragazza dal fisico esondante, che aveva frequentato le elementari dalle Orsoline e il liceo scientifico dagli Scolopi, chitarra classica al Conservatorio, per scoprire il sesso a 14 anni, e in seguito teorizzare che la penetrazione è apprezzabile come fornitrice di piacere solo dopo aver compiuto i 17.
Figlia di un ingegnere nucleare molto cattolico e impegnato nel volontariato, sorella di un’altra piccola star del porno, Baby Pozzi, vero nome Tamiko, ossia fiore di nebbia in giapponese, Moana, che «è il nome di unisola delle Hawaii e in dialetto polinesiano significa il punto dove il mare è più profondo» aveva davanti a sé la vita deprimente della pornostar, dopo una gioventù di nottate spaventose e osée, di amanti ricchi, di relazioni con politici importanti: ma in quegli anni, anche se tutti capivano, nessuno scriveva chi era «il politico spiritoso con cui mi divertivo», il cinghialone che «adora le ragazze vistose», con cui Moana nel 1981 passò le notti di otto mesi di quasi amore, insomma quel segretario di partito che la prima notte passata insieme, di fronte a lei vestita come un’atomica del sesso, si limitò a masturbarsi «guardandomi e accarezzandomi», a dispetto del decisionismo maschilista che impersonava.
Realtà, fantasia, non importa. Il segreto più intimo di Moana consisteva in una schizofrenia dell’esistenza e dell’apparenza, per cui c’era nelle immagini una sacerdotessa sacrilega di performance drammaticamente dure, e nella vita reale, o perlomeno nella vita fuori dal porno, una signora dalla faccia grande e dagli occhi un po’ bovini che confessava di amare fra gli scrittori «Moravia, Kundera, Poe, la Yourcenar, Anaïs Nin, Burroughs».
Da una parte, il suo riflesso in un fumetto hardcore ricco di estremismi erotico-popolari, «alle cui fantasie qualche volta mi ispiro per i miei spettacoli», dall’altra una gran signora che riceveva moltissime proposte di matrimonio, che nella sua casa da sultana amava circondarsi di oggetti di arte sacra, inginocchiatoi, acquasantiere, e diceva di dormire «in una stanza tutta rosa in un letto a baldacchino stile Luigi XVI».
Amante del denaro («Da buona genovese», anche se era nata a Lerna, provincia di Alessandria) e dei gioielli («Quando li indosso mi sento meglio fisicamente»), timida e preda di grandi imbarazzi, soprattutto alle conferenze stampa e davanti a fotografi e giornalisti, in quanto timorosa di non essere all’altezza: «Mi sento molto più a mio agio quando sono su un palcoscenico e mi esibisco nuda».
Anche gelosa in amore, perché «dal mio partner non accetto la minima infedeltà» e antifemminista con qualche sprazzo di coscienza anticonformista e parafemminista, «per me la donna oggetto è la casalinga che lava, cuce, stira e cucina per la famiglia, senza nessuna gratificazione», Moana aveva la capacità di fare un cocktail di opposti: dichiarare una fede pacificata in Dio, nella vita dopo la morte, «immagino il Paradiso come un posto di campagna con tanti alberi. Penso che avremo vicino le persone a cui abbiamo voluto bene e che il tempo non esisterà», e nello stesso tempo annotare come sua principale massima filosofica «vivi come se dovessi morire domani e pensa come se non dovessi morire mai».
Capace anche di dichiarare la sua avversione per la volgarità, «mentre l’oscenità è sublime», dopo film come “Le calde labbra bagnate di Moana”, dopo collezioni di denunce per atti osceni e «un totale di 24 mesi di reclusione senza la condizionale», per poi confessare di tenere la Bibbia sul comodino, di fianco all’enorme letto coperto con lenzuola nere, leggendola a caso come se interrogasse I Ching, il libro cinese delle trasformazioni.
In un memorabile articolo pubblicato nel settembre 1994 subito dopo la morte della «pornodiva per bene», una maestra di stile come Natalia Aspesi aveva colto bene la doppiezza strategica della bella Moana: «Una Shahrazad capace di incantare per mille e una notte, pudicamente, il re disperato, riservando la sua ribalderia sporcacciona ad altri, i servi gli schiavi».
Per poi ricordare, che «il giusto rispetto e l’autentico lutto» che avevano accolto la sua morte, e lo stupore generale per la scomparsa di una donna «che aveva scelto di morire in silenzio e di farlo sapere dopo, concedendosi il buio della fine senza ulteriori oltraggi», portava anche alcuni vistosi equivoci, come il necrologio sul ”Corriere della Sera” con cui «il gruppo Garavaglia la onora definitivamente ricordandola come esempio di vita».
Le definizioni di Moana furono infinite: «Una Jessica Rabbit in polpa, che pratica fellatio, cunnilingus e ogni genere di coito, davanti alla macchina da presa o sui palcoscenici a luci rosse, senza mai perdere la naturale eleganza che le viene dalla nascita buona borghese», «una salamandra che passa indenne tra mille fuochi, questa sfinge che molti sfiorano ma pochi toccano veramente» (Marco Fini su ”Epoca”).
Comparsate anche dignitose in qualche film di Verdone, Salce, Risi, Corbucci, con la gemma di una particina in Ginger e Fred di Federico Fellini. Interviste, partecipazioni e dichiarazioni dappertutto, negli spettacoli di Fabrizio Frizzi e nei talk show di Giuliano Ferrara, Catherine Spaak, Giancarlo Magalli, in cui enunciava la sua morbida visione new age dell’eros.
Adesso si tratterebbe di capire se Moana resti un simbolo anche ai giorni nostri, terzo millennio avanzante. Allora era una donna naturalmente politica, che poteva annunciare vaghi progetti con il partito degli anziani, di cui sarebbe stata la leader e l’infermiera erotica, e sostenere che l’Italia è un paese molto libero «in quanto è vietato tutto ma si può fare ogni cosa».
Ma è difficile dirlo, soprattutto perché l’estremo praticato e mitologizzato da Moana un decennio fa si è lentamente trasferito nel costume. Delle vecchie compagne di strada, Luana Borgia, Milly D’Abbraccio, Eva Orlowsky, Jessica Rizzo, nessuna ha raccolto la staffetta ideologica della Santa meretrice. Tuttavia è sufficiente guardare l’immagine pubblica delle donne, fra piercing, tatuaggi, cavallo bassissimo, intimo in bella vista, per sospettare che la testimonianza di Moana appartenga per molti al passato: e per qualcuno alla nostalgia.
Aveva trasformato un mestiere abbastanza tremendo in una specie di tesi di laurea permanente. Foucault, Derrida, abissi psicologici, massimalismi della fisicità. Parlava del suo corpo come di uno strumento tecnico, un’estensione della volontà da usare in modo estremo. Collezionava flirt e passioni di alto livello mondano, citandoli quasi sempre per nome e cognome nel suo libro diventato un cult. La filosofia di Moana (60 milioni certi di pubblicazione in proprio e 20 mila copie dichiarate di vendita): da Luciano De Crescenzo a Marco Tardelli, da Renzo Arbore a Massimo Troisi, da Francesco Nuti a Nicola Pietrangeli con tanto di voti per le loro qualità personali e amorose, voto minimo al grande centrocampista della Roma Falcao.
Eppure, fuori dalla mondanità romana e dal giro dei morti di fama, non aveva esitazioni a farsi accarezzare nuda, durante i suoi spettacoli furibondi e strampalati con Ramba, cioè Ileana Carusio, e l’altra puledra di razza della scuderia di Riccardo Schicchi, l’italo-tedesca Petra Scharbach, concedendosi a folle di gente sudata e male in arnese che allungava disperatamente le mani.
Talmente sensibile al richiamo della sessualità da girare metri e metri di pellicola su un’orgia con quattro maschi, per poi filare «a farmi scopare in bagno appoggiata a un lavandino» con il più attraente di questi, un tale Marc, passando dalla brutalità del film porno all’urgenza desiderante della realtà.
Così raccontava e si raccontava Moana Pozzi, pornostar, ideologa del sesso, attrice che interpretava se stessa, morta in un ospedale di Lione per un cancro al fegato dieci anni fa, a 33 anni. Adesso Mondadori pubblica un libro postumo, Il diario, a cura di Marco Giusti, e che uscirà a metà settembre.
Ma è ancora un mito, Moana? Una figura in grado di risvegliare qualche scintilla nell’immaginario di massa? «Dio mio, non riconosco più il mio corpo che amavo tanto», aveva confidato alla famiglia, chiedendo di essere cremata.
Era l’Italia degli anni Novanta, del post-Tangentopoli, del primo trionfo di Silvio Berlusconi, che pure non l’aveva voluta, al contrario di Antonio Ricci, nuda a ”Matrioska”, solo scarpe e orecchini. Allora Moana era l’icona possibile di un’Italia sospesa.
Una ragazza dal fisico esondante, che aveva frequentato le elementari dalle Orsoline e il liceo scientifico dagli Scolopi, chitarra classica al Conservatorio, per scoprire il sesso a 14 anni, e in seguito teorizzare che la penetrazione è apprezzabile come fornitrice di piacere solo dopo aver compiuto i 17.
Figlia di un ingegnere nucleare molto cattolico e impegnato nel volontariato, sorella di un’altra piccola star del porno, Baby Pozzi, vero nome Tamiko, ossia fiore di nebbia in giapponese, Moana, che «è il nome di unisola delle Hawaii e in dialetto polinesiano significa il punto dove il mare è più profondo» aveva davanti a sé la vita deprimente della pornostar, dopo una gioventù di nottate spaventose e osée, di amanti ricchi, di relazioni con politici importanti: ma in quegli anni, anche se tutti capivano, nessuno scriveva chi era «il politico spiritoso con cui mi divertivo», il cinghialone che «adora le ragazze vistose», con cui Moana nel 1981 passò le notti di otto mesi di quasi amore, insomma quel segretario di partito che la prima notte passata insieme, di fronte a lei vestita come un’atomica del sesso, si limitò a masturbarsi «guardandomi e accarezzandomi», a dispetto del decisionismo maschilista che impersonava.
Realtà, fantasia, non importa. Il segreto più intimo di Moana consisteva in una schizofrenia dell’esistenza e dell’apparenza, per cui c’era nelle immagini una sacerdotessa sacrilega di performance drammaticamente dure, e nella vita reale, o perlomeno nella vita fuori dal porno, una signora dalla faccia grande e dagli occhi un po’ bovini che confessava di amare fra gli scrittori «Moravia, Kundera, Poe, la Yourcenar, Anaïs Nin, Burroughs».
Da una parte, il suo riflesso in un fumetto hardcore ricco di estremismi erotico-popolari, «alle cui fantasie qualche volta mi ispiro per i miei spettacoli», dall’altra una gran signora che riceveva moltissime proposte di matrimonio, che nella sua casa da sultana amava circondarsi di oggetti di arte sacra, inginocchiatoi, acquasantiere, e diceva di dormire «in una stanza tutta rosa in un letto a baldacchino stile Luigi XVI».
Amante del denaro («Da buona genovese», anche se era nata a Lerna, provincia di Alessandria) e dei gioielli («Quando li indosso mi sento meglio fisicamente»), timida e preda di grandi imbarazzi, soprattutto alle conferenze stampa e davanti a fotografi e giornalisti, in quanto timorosa di non essere all’altezza: «Mi sento molto più a mio agio quando sono su un palcoscenico e mi esibisco nuda».
Anche gelosa in amore, perché «dal mio partner non accetto la minima infedeltà» e antifemminista con qualche sprazzo di coscienza anticonformista e parafemminista, «per me la donna oggetto è la casalinga che lava, cuce, stira e cucina per la famiglia, senza nessuna gratificazione», Moana aveva la capacità di fare un cocktail di opposti: dichiarare una fede pacificata in Dio, nella vita dopo la morte, «immagino il Paradiso come un posto di campagna con tanti alberi. Penso che avremo vicino le persone a cui abbiamo voluto bene e che il tempo non esisterà», e nello stesso tempo annotare come sua principale massima filosofica «vivi come se dovessi morire domani e pensa come se non dovessi morire mai».
Capace anche di dichiarare la sua avversione per la volgarità, «mentre l’oscenità è sublime», dopo film come “Le calde labbra bagnate di Moana”, dopo collezioni di denunce per atti osceni e «un totale di 24 mesi di reclusione senza la condizionale», per poi confessare di tenere la Bibbia sul comodino, di fianco all’enorme letto coperto con lenzuola nere, leggendola a caso come se interrogasse I Ching, il libro cinese delle trasformazioni.
In un memorabile articolo pubblicato nel settembre 1994 subito dopo la morte della «pornodiva per bene», una maestra di stile come Natalia Aspesi aveva colto bene la doppiezza strategica della bella Moana: «Una Shahrazad capace di incantare per mille e una notte, pudicamente, il re disperato, riservando la sua ribalderia sporcacciona ad altri, i servi gli schiavi».
Per poi ricordare, che «il giusto rispetto e l’autentico lutto» che avevano accolto la sua morte, e lo stupore generale per la scomparsa di una donna «che aveva scelto di morire in silenzio e di farlo sapere dopo, concedendosi il buio della fine senza ulteriori oltraggi», portava anche alcuni vistosi equivoci, come il necrologio sul ”Corriere della Sera” con cui «il gruppo Garavaglia la onora definitivamente ricordandola come esempio di vita».
Le definizioni di Moana furono infinite: «Una Jessica Rabbit in polpa, che pratica fellatio, cunnilingus e ogni genere di coito, davanti alla macchina da presa o sui palcoscenici a luci rosse, senza mai perdere la naturale eleganza che le viene dalla nascita buona borghese», «una salamandra che passa indenne tra mille fuochi, questa sfinge che molti sfiorano ma pochi toccano veramente» (Marco Fini su ”Epoca”).
Comparsate anche dignitose in qualche film di Verdone, Salce, Risi, Corbucci, con la gemma di una particina in Ginger e Fred di Federico Fellini. Interviste, partecipazioni e dichiarazioni dappertutto, negli spettacoli di Fabrizio Frizzi e nei talk show di Giuliano Ferrara, Catherine Spaak, Giancarlo Magalli, in cui enunciava la sua morbida visione new age dell’eros.
Adesso si tratterebbe di capire se Moana resti un simbolo anche ai giorni nostri, terzo millennio avanzante. Allora era una donna naturalmente politica, che poteva annunciare vaghi progetti con il partito degli anziani, di cui sarebbe stata la leader e l’infermiera erotica, e sostenere che l’Italia è un paese molto libero «in quanto è vietato tutto ma si può fare ogni cosa».
Ma è difficile dirlo, soprattutto perché l’estremo praticato e mitologizzato da Moana un decennio fa si è lentamente trasferito nel costume. Delle vecchie compagne di strada, Luana Borgia, Milly D’Abbraccio, Eva Orlowsky, Jessica Rizzo, nessuna ha raccolto la staffetta ideologica della Santa meretrice. Tuttavia è sufficiente guardare l’immagine pubblica delle donne, fra piercing, tatuaggi, cavallo bassissimo, intimo in bella vista, per sospettare che la testimonianza di Moana appartenga per molti al passato: e per qualcuno alla nostalgia.
Edmondo Berselli