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 2014  agosto 20 Mercoledì calendario

«Amo la pizza, il Milan, Johnny Depp»: la vita troppo breve di Yara Gambirasio

tratto da: Yara - Il Dna e altre verità,
Corriere della Sera Storie, 2014

  «No, signor maresciallo, mia figlia non è scappata di casa, non è il tipo che fa certe cose.» La sera del 26 novembre 2010, nella caserma dei carabinieri di Ponte San Pietro, Maura Panarese è certa di quello che dice. Sua figlia tredicenne Yara Gambirasio è improvvisamente scomparsa, non ha fatto ritorno dalla palestra e Maura capisce fin da subito che deve essere successo qualcosa di brutto perché niente, in Yara, potrebbe giustificare un deragliamento così improvviso e misterioso dai binari della sua vita. Appunto: chi era Yara prima di diventare Yara? Chi era questa ragazzina che tutta l’Italia di lì a poco identificherà con un dramma oscuro, privo di spiegazioni, prendendo confidenza con quelle poche foto diffuse a ripetizione da giornali, siti Internet, Tv, che mostrano il sorriso largo e candido, ingabbiato nell’apparecchio per i denti? Carabinieri, polizia, magistratura faranno da subito quel che l’esperienza insegna in casi simili: scandagliare i segreti dell’adolescente, ispezionare la cameretta, il computer, lo zainetto, le chiamate al telefonino. Per arrendersi ben presto alla più disarmante delle conclusioni: quello di Yara era un mondo piccolo, fatto di pochi percorsi quotidiani segnati e ripetitivi, di legami personali che si contano sulle dita di due mani. Un mondo sicuro che la sua famiglia le aveva costruito attorno rendendola al tempo stesso responsabile: Yara andava tutti i giorni a scuola a Bergamo prendendo l’autobus per conto suo, andava in palestra a piedi e da sola perché i genitori le avevano insegnato come ci si comporta. Il male del mondo non poteva contagiare il mondo piccolo di Brembate di Sopra, un paese che sa di Italia buona, di Giovannino Guareschi trasferito in Lombardia sessant’anni più tardi e dove al massimo al posto dei comunisti ci sono i leghisti. Quando la procura farà analizzare i tabulati telefonici con le chiamate del cellulare di Yara Gambirasio, scoprirà che la ragazza inviava e riceveva chiamate solo da una decina di numeri: i genitori, Fulvio e Maura, l’istruttrice di ginnastica Daniela Rossi, qualche coetanea tra cui Martina, che alle 17.45 di quel tragico 26 novembre riceverà l’ultimo sms, l’ultimo segnale di vita da Yara. E quando gli inquirenti proveranno a scartabellare il diario scolastico della ragazza non ci troveranno inquietudini adolescenziali e cotte scolastiche ma solo la stagnola di qualche cioccolatino appiccicata qua e là e le figurine dei suoi cartoni animati preferiti.
Acerba nel fisico, esattamente come le foto la ritraggono, più bambina rispetto a tante coetanee: ecco chi era Yara Gambirasio al termine della sua vita troppo breve. A conti fatti, il mondo piccolo della protagonista di questa tragedia è racchiuso in un triangolo topografico facilmente tracciabile: la casa di famiglia in via Rampinelli, a Brembate di Sopra, la palestra di via Locatelli, distante appena settecento metri da casa, l’istituto delle Orsoline di Bergamo dove frequentava l’ultimo anno delle medie. Unite questi tre punti e avrete, per intero, il mondo piccolo di Yara. Via Rampinelli è un rettilineo tagliato da poche stradine perpendicolari a fondo cieco. Alla fine di una di queste c’è la villetta dei Gambirasio. Yara divideva la cameretta al primo piano con Keba, la sorella maggiore, nella stanza accanto dormivano Natan e Gioele, i fratelli più piccoli. Già, i nomi: da dove li avranno pescati Fulvio e Maura? Quello di Yara ha un significato preciso: fa riferimento a una divinità india del Sudamerica, significa fiume e dunque vita, prosperità. «È ben augurante, le porterà fortuna», dissero i genitori al momento della scelta. Yara teneva fede a quel nome esotico mettendo tutte le sue energie nello studio e nello sport. La stanzetta di via Rampinelli rifletteva quelle passioni: i libri di scuola dividevano lo spazio con i poster di Vanessa Ferrari e Daniela Masseroni, campionesse di ginnastica delle quali la ragazza sognava di imitare le imprese e di cui scaricava da Internet i video con gli esercizi di gara. Quando i carabinieri entrarono in quella cameretta per cercare qualche traccia che orientasse le ricerche sulla scomparsa non trovarono nulla fuori posto: non mancava niente. «Anche per questo sono convinta che Yara non sia scappata, altrimenti avrebbe portato con sé qualche indumento, un po’ di soldi…», precisò Maura. Gli inquirenti se ne andarono portando via solo una spazzola e unpaio di indumenti da far fiutare ai cani cercapersone. Ma le piste da seguire erano tutte e nessuna. Nei giorni più bui e angosciosi delle ricerche gli inquirenti fecero controlli anche a Tricase, il paese del Salento in cui vivono i nonni materni e dove ogni estate i Gambirasio trascorrono le vacanze. Chissà, forse Yara aveva voluto raggiungere qualche «filarino » conosciuto in riva al mare e invece niente, Tricase era e rimase solo il luogo delle ferie passate con i genitori e i fratelli.
Del resto, per nove anni filati la ragazzina di Brembate di Sopra ogni mattina è uscita dalla casa di via Rampinelli e ha fatto andata a ritorno verso Bergamo all’istituto delle Orsoline «Regina Madre». Prima le elementari, poi le medie, classe terza sezione C, primo banco a destra della seconda fila, 26 alunne. Per volere di suor Carla Lavelli, l’insegnante di lettere, nei tre mesi in cui Yara è sparita quel banco è diventato un piccolo altare dove ognuno posava fiori, bigliettini, pupazzi, piccole testimonianze di amicizia e di speranza. Speranza dolorosamente crollata il pomeriggio del 26 febbraio 2011, con il ritrovamento del cadavere nel campo di Chignolo d’Isola. «Ho radunato tutti nel nostro Auditorium. Ai ragazzi ho detto che non dobbiamo chiederci chi è stato e perché è successo», dichiarò suor Carla in quei giorni. «Questa deve diventare un’esperienza educativa che ci porti a costruire qualcosa di nuovo dentro di noi, nuovi rapporti umani. Anche l’assassino deve ritrovare una sua umanità, riconoscere il suo errore. Ma parlare adesso di perdono significa banalizzarlo». Suor Carla era divenuta nel tempo una figura centrale nella vita di Yara e della famiglia Gambirasio, fermamente convinta del valore di una educazione di stampo cattolico. Quando le sterpaglie del campo di Chignolo restituiranno il cadavere della ragazzina, uno dei primi messaggi che la madre invierà dal proprio telefonino avrà come destinataria proprio la religiosa. «Me l’hanno portata via», è lo stringato contenuto.
Yara rispondeva alle sollecitazioni che riceveva in classe con voti molto alti, nessun problema di apprendimento, un’inclinazione per la matematica e le scienze. Alle alunne dell’istituto «Regina Madre» nei primi mesi del 2010 venne affidato un compito multimediale per un corso di informatica: ognuna di loro aveva a disposizione un breve testo affiancato da diapositive e immagini in cui doveva presentarsi e raccontare i propri gusti, i propri sogni. Quello della ragazza, nella sua semplicità, è una sintesi perfetta, non priva di una punta di autoironia. Eccone il testo: «Ciao a tutti, mi chiamo Yara Gambirasio. Ho tredici anni e sono una ragazza snella con gli occhi castani e capelli abbastanza lunghi, mossi e castani. Adoro vestirmi alla moda anche se i miei vestiti non lo sono. Il mio sport preferito è la ginnastica ritmica che pratico da quando avevo quattro anni. Il mio attore preferito: Johnny Depp; la mia cantante preferita: Laura Pausini; i miei animali preferiti: gattini, cagnolini e conigli. Adoro la pizza, le patatine fritte e le caramelle. I miei fiori preferiti sono le margherite, le rose e i tulipani. La mia squadra del cuore è il Milan e il mio sogno è viaggiare». La presentazione comprendeva un’immagine del film Step up della coreografa e regista Anne Fletcher, una storia di bande di adolescenti che si sfidano in gare di ballo. La curiosità di Yara per il mondo della scienza è confermata dall’ultimo tema in classe scritto prima della morte; racconta di una giornata trascorsa nei padiglioni del festival «Bergamo scienza» e in particolare l’attrazione per la macchina Enigma, quella con cui il controspionaggio inglese, durante la Seconda guerra mondiale, riuscì a decifrare i messaggi in codice dei nazisti. Yara quella giornata l’ha raccontata così: «Insieme al professor Gritti, insegnante di scienze e matematica e tre mamme alle undici siamo arrivate alla biblioteca. C’erano tre capannoni molto grandi, noi entrammo in quello centrale dove ci attendevano con molto entusiasmo quattro ragazzi di una scuola superiore di Bergamo che ci avrebbero accompagnati nell’approfondire il tema accennato in classe con giochi e filmati molto interessanti. In primo luogo abbiamo approfondito l’argomento con due filmati; uno era un documentario sulla macchina Enigma l’altro era un pezzo molto breve del filmato dove facevano vedere come decifravano dei messaggi tedeschi. Poi ci siamo divisi in sei gruppi per lavorare meglio. Vi erano due tipi diversi di giochi, uno tramite il computer dove dovevamo decifrare dei testi di fantasia e poemi; l’altro tramite una macchina costruita dai ragazzi invece consisteva nel sistemare tutti i pezzi della macchina seguendo le istruzioni per poi scrivere un messaggio da dare ai nostri compagni che dovevano decifrarlo. È stato molto divertente».
Se non alla scienza, il futuro di Yara sarebbe stato dedicato ai viaggi, almeno nei suoi desideri. Magari sulle ali dell’altro suo grande sogno, diventare una «farfalla», una campionessa di ginnastica ritmica. Tre volte alla settimana, finiti i compiti in quattro e quattr’otto, metteva da parte i libri, prendeva la borsa e percorreva i settecento metri che separano via Rampinelli dalla palestra di via Locatelli, dove si trova il complesso sportivo di Brembate di Sopra. Lì la ragazza sottoponeva il suo fisico minuto ma già in fase di trasformazione ai duri esercizi al tappeto, con il cerchio, il nastro, le clavette, vale a dire le specialità di cui si compone la ginnastica ritmica, variante della più celebre ginnastica artistica entrata a far parte anche del programma olimpico nel 2000. Le ragazzine della squadra agonistica si allenavano divise da un separé rispetto agli altri atleti della sala e anche questo dettaglio susciterà interrogativi nei primi giorni del dramma. Se l’aguzzino era mimetizzato tra i frequentatori del centro sportivo, non sarebbe stato facile per lui tenere d’occhio la vittima predestinata. Ma ben presto si capì che il «popolo» della palestra di Brembate nulla aveva a che fare con l’omicidio. La foto di Yara impegnata nell’esercizio della spaccata negli anni diventerà familiare. «Il suo talento è frutto di un carattere e di una autodisciplina straordinarie», diceva di lei Daniela Rossi, la sua allenatrice. «Yara non ha la flessuosità di certe atlete e a tredici anni sai già se diventerai una numero uno. Lei è a un livello amatoriale ma la sua è una passione vera.» Una tenacia che alla «farfalla» ancora nel bozzolo aveva però già fruttato soddisfazioni: l’attenzione da parte dei vertici nazionali delle federazioni, gare internazionali a Strasburgo e Ginevra, gli applausi dei familiari e della piccola cerchia di amici. L’allenatrice sarà anche l’ultima persona a vedere Yara viva: la ragazza era andata in palestra, quel venerdì, solo per portare uno stereo con le musiche per accompagnare l’esibizione di gara della domenica. Un’uscita non programmata, improvvisata. Quando i genetisti rintracceranno sugli indumenti del cada-vere alcune tracce di Dna, oltre a quelle dell’assassino ne ritroveranno un paio appartenenti proprio a Daniela Rossi: campioni cosiddetti «da contatto», lasciati cioè in maniera casuale e frutto di gesti abitudinari. Una delle tracce si trovava sulle dita di un guanto, un’altra sul bavero del piumino. Forse, nel congedarsi, l’istruttrice aveva sistemato il soprabito all’allieva. Un gesto di affetto, l’ultimo per Yara.
Claudio Del Frate