la Repubblica, lunedì 18 agosto 2014, 18 agosto 2014
Tags : Gabriel García Márquez
Il viaggio in Italia di García Márquez
la Repubblica, lunedì 18 agosto 2014
Del legame tra Gabriel García Márquez e Roma si parla poco. I biografi sottovalutano il periodo italiano e lui stesso conclude l’autobiografia Vivere per raccontarla con l’atterraggio a Ginevra. Eppure la permanenza a Roma, dove arrivò giovane giornalista ventottenne, è elemento chiave per la sua scrittura stregata. Arrivò in Italia dalla Svizzera il 30 luglio 1955, inviato speciale del quotidiano colombiano El Espectador, per scrivere la sua prima “cronaca di una morte annunciata”. Quella di Pio XII. Papa Pacelli aveva avuto una crisi di singhiozzo e il giornale gli aveva chiesto di seguirne da vicino lo stato di salute. Pio XII sarebbe morto tre anni dopo. Ma l’estate di 59 anni fa diede modo al cronista colombiano di approdare a Roma, una delle sue più agognate mete perché sede di Cinecittà, la «fabbrica dei sogni degli anni Cinquanta». Lì avrebbe potuto conoscere i suoi tanto ammirati De Sica e Zavattini.
Alloggiò in un hotel in via Nazionale, che poi avrebbe ricordato così: «Le sue finestre erano così vicine alle rovine del Colosseo che non solo si potevano vedere le migliaia di gatti addormentati dal caldo sulle gradinate, ma si poteva anche percepire l’intenso odore della loro urina fermentata». A dieci anni dalla fine della seconda guerra, davanti a lui scorreva l’Italia in bianco e nero, povera e provinciale, vista nelle pellicole neorealiste: «Come in un film di Zavattini, i poveri uscivano sconfitti ma in modo allegro e particolare. Il modo italiano di perdere che hanno i poveri si chiama realismo del cinema», annotava nell’agosto 1955. Ora era lui stesso a camminare in quel set di eroi quotidiani in carne e ossa, che lottavano per seppellire le tracce della guerra, accompagnati da santi, miracoli e riti.
Papa Pacelli e Sofia Loren
Il primo rito che documentò fu l’udienza di Pio XII a Castelgandolfo. Puntava a realizzare la serie di servizi “Sua Santità va in vacanza”, cinque articoli in cinque mesi, dando spazio alla sua ammirazione per le creature dal potere supremo. Inviò un ritratto umano di Pacelli, trovato senza crisi di singhiozzo e in buono stato fisico: «Durante l’udienza, non so per quali associazioni di idee, ho avuto l’impressione che emanasse un profumo di lavanda ». Voleva intervistare suor Pascalina Lehnert, l’influente suora tedesca che amministrava la vita privata del pontefice, «una creatura vaga e misteriosa». Per chiederle, tra le altre cose, qual era il numero di scarpe del Papa, quante paia ne aveva e altri dettagli intimi che il Vaticano occultava in modo ferreo. Non riuscì a sapere il numero di scarpe, ma svelò la sua dieta: «Brodo, un pezzo di carne con verdura cotta, una mela cotta e un bicchiere di vino, un pranzo sciapo perché il suo medico gli ha proibito il sale».
In quei giorni non tralasciò un episodio di cronaca nera, a due passi dal palazzo pontificio venne ritrovato il corpo di una donna, decapitato. La polizia cercava la testa, forse gettata nel lago su cui affaccia la residenza papale. «Forse il Papa sarà l’unico in grado di vedere, da una finestra che domina l’intera superficie del lago, ciò che tutti i romani sono ansiosi di vedere: la testa che la polizia recupererà dalle acque di Castel Gandolfo». Un’immagine che poi trasferirà nella raccolta I funerali della Mamà grande.
Da cronista segnalò l’interesse del pontefice per il cinema e l’udienza privata a una diva: «Un mese fa il Papa ha conosciuto di persona una donna che mezza umanità ha associato al Diavolo: Sofia Loren». Concluse così: «Se per volontà di Dio il Papa avesse perso l’equilibrio, il mio articolo sarebbe stato triste e indesiderato, ma anche un articolo in esclusiva mondiale».
Tenore a Domicilio
Dall’hotel in via Nazionale si trasferì presto in una pensione nel quartiere Parioli. Suo vicino di stanza era il tenore colombiano Rafael Ribero Silva, a Roma da sei anni. I due divennero complici in esplorazioni romane che in seguito avrebbe riportato nel racconto La Santa : «Io e il tenore non facevamo la pennichella pomeridiana. Giravamo sulla sua Vespa, lui guidava e io stavo dietro, all’altezza del motore, e portavamo gelati e cioccolata alle
puttanelle che d’estate svolazzavano in pieno giorno sotto gli allori secolari di Villa Borghese in cerca di turisti insonni. Erano belle, povere ed affettuose, come la maggior parte delle donne italiane dell’epoca, vestite di organza blu e popeline rosa, di lino verde e per proteggersi dal sole usavano gli ombrellini tarmati dalle piogge della recente guerra». Al tenore, suo coetaneo, avrebbe dedicato l’articolo Trionfo lirico a Ginevra: «Alle sette in punto, Rafael si sveglia per fare i suoi esercizi di canto. Le note si frantumano come pietre contro i vetri delle finestre e allora i vicini sanno che è ora di svegliarsi. In altri posti si sarebbe costituita un’associazione di condomini per gettare il tenore dalla finestra. Ma Roma si differenzia dalle altre città del mondo proprio per questo. Per i romani è un lusso avere un tenore in carne e ossa come servizio in camera. È persino più chic di avere un telefono bianco o l’ultimo modello d’automobile».
L’omicidio Montesi
Il tenore fu il suo traduttore in un momento in cui non conosceva l’italiano e doveva consultare fonti molteplici, come per il dettagliato reportage sull’omicidio Montesi, a cui lavorò per tutto agosto e alcuni giorni di settembre. Wilma Montesi aveva 21 anni ed era figlia di un operaio romano; il suo omicidio, due anni prima, era stato coperto per ragioni ancora oscure nel momento in cui Márquez riferiva il caso, evidenziando la decadenza delle classi alte, la corruzione della polizia e la manipolazione politica.
El Espectador gli diede grande rilievo: «Per un intero mese, visitando i posti in cui il delitto si è consumato, Gabriel García Márquez ha scoperto i minimi dettagli della morte di Wilma Montesi e del processo che ne è seguito». Fu un successo pubblicato in 14 puntate. Un lavoro d’oreficeria sulla società italiana.
Venezia, indigestione di film
A metà settembre Gabo fu spedito alla XVI Mostra del cinema di Venezia. Dieci articoli, vedendo film giorno e notte: «È la prima grande indigestione di cinema della mia vita». Del Leone d’oro a Ordet del danese Dreyer scrive: «Era sufficiente Ordet, La parola, perché questo non fosse un anno in bianco per la storia del cinema». Ma i film che lo entusiasmarono di più furono Amici per la pelle di Francesco Rosi (che 35 anni dopo avrebbe diretto Cronaca di una morte annunciata) e Le amiche di Antonioni. Ribattezzò il Festival veneziano «la Democrazia dello smoking», d’obbligo alle proiezioni ufficiali. Noleggiarne uno costava mille lire, all’epoca la paga settimanale di un operaio. Sintetizzò la rivalità tra Loren e Lollobrigida come «la guerra delle misure». Ma lasciò anche il Lido per raccontare un altro cinema, quello di strada: «Per capire il neorealismo italiano, rendersi conto che Cesare Zavattini è uno dei più grandi uomini di questo secolo, è necessario vedere un pranzo da poveri a Venezia. I poveri portano due libbre di pasta al Lido e si mangiano due libbre di maccheroni. Ma non sono le stesse che si sono portati: sono due libbre fatte con le due libbre di ognuno dei vicini. Quando apre il proprio pacco, la mamma di qui dà un po’ di maccheroni alla mamma di là. E quest’ultima dà a quell’altra un altro po’ dei suoi maccheroni. E così, mentre i pacchi si aprono, c’è uno scambio generale di maccheroni e pezzi di pane. Alla fine, tutti hanno mangiato bene. Ma nessuno ha mangiato i propri maccheroni, bensì quelli del vicino. È una caratteristica degli italiani: nei treni, ma solo nei vagoni di terza classe, è facile che ti vada di traverso quel poco di cibo che ti danno tutti gli altri».
A scuola di neorealismo
Nella capitale – dove si era iscritto al corso di regia del Centro sperimentale di cinematografia – non scrisse nessun libro, ma il cinema fece da semenzaio al suo immaginario e al suo sguardo. Molti anni più tardi, avrebbe dichiarato: «Non sono venuto a Roma per studiare cinema, ma per imparare il Neorealismo ». Nel 1950 di Ladri di biciclette di De Sica aveva scritto: «Gli italiani stanno facendo cinema per strada, senza teatri di posa, trucchi di scena, com’è la vita stessa». Di Miracolo a Milano, nel 1954: «È tutta una favola, solo che realizzata in un ambiente insolito e mescolata in modo geniale, fantasia e realtà, fino al punto estremo che in molti casi non è possibile sapere dove cominci l’una e dove finisca l’altra». In un’intervista a Gianni Minà in Messico, nel 1992, disse chiaramente: «Nessuno ha mai pensato che Miracolo a Milano è la radice più probabile del romanzo latinoamericano?». E ancora: «Oggi non potete immaginare che cos’ha voluto dire per la nostra generazione il Neorealismo. È stato come inventare di nuovo il cinema. Noi vedevamo film di guerra o di Marcel Carné e di quei francesi che si imponevano per norma artistica e poi, all’improvviso, arriva il neorealismo dall’Italia, con film fatti con pellicole di scarto, con attori che, si diceva, non avevano mai visto una telecamera in vita loro. Tuttavia era un cinema perfetto».
La lezione di Zavattini
Grazie al cineasta argentino Fernando Birri incontrò Zavattini. «Era una macchina, i pensieri gli uscivano a fiotti, quasi contro la sua volontà – annota Márquez – E con tanta fretta, che sempre gli mancava l’aiuto di qualcuno per pensarli a voce alta o prenderli al volo. Conservava le idee in biglietti ordinati per temi, attaccati sul muro con delle puntine, e ne aveva così tanti che occupavano un angolo di casa sua». Il maestro italiano aveva 53 anni, era un cineasta celebre e non poteva immaginare l’impatto culturale che la sua creatura artistica, il Neorealismo, avrebbe generato sull’allievo venuto dal Nuovo mondo. Nel discorso pronunciato all’Avana per l’inaugurazione della scuola di cinema da lui fondata e intitolata a Cesare Zavattini, il 4 dicembre 1986, riassume così l’esperienza romana: «Già da allora parlavamo quasi tanto come adesso del cinema che bisognava fare in Sudamerica e di come bisognava farlo, e i nostri pensieri erano ispirati al Neorealismo italiano, che è – come dovrebbe essere il nostro – il cinema con meno risorse e il più umano che sia mai stato fatto. In quel giorni romani ho vissuto la mia unica avventura in un squadra di regia. Sono stato nella scuola come terzo assistente del regista Alessandro Blasetti nel film Peccato che sia una canaglia, e questo mi ha dato grande felicità, non tanto per il mio progresso personale quanto per l’occasione di conoscere la protagonista del film, Sofia Loren. Ma non sono mai riuscito a vederla, perché il mio lavoro consisteva, per più di un mese, nel reggere una corda all’angolo perché non passassero curiosi. È a questo titolo, e non con i molti e rimbombanti che ho ottenuto per il mio lavoro di romanziere, che adesso mi sono permesso di essere presidente di questa Casa come non lo sono mai stato nella mia, e di parlare a nome di tanta gente di cinema degna di nota». Era arrivato a Roma con la canicola d’agosto. Un giorno di pioggia, prima di Natale, partì per Parigi.
Del legame tra Gabriel García Márquez e Roma si parla poco. I biografi sottovalutano il periodo italiano e lui stesso conclude l’autobiografia Vivere per raccontarla con l’atterraggio a Ginevra. Eppure la permanenza a Roma, dove arrivò giovane giornalista ventottenne, è elemento chiave per la sua scrittura stregata. Arrivò in Italia dalla Svizzera il 30 luglio 1955, inviato speciale del quotidiano colombiano El Espectador, per scrivere la sua prima “cronaca di una morte annunciata”. Quella di Pio XII. Papa Pacelli aveva avuto una crisi di singhiozzo e il giornale gli aveva chiesto di seguirne da vicino lo stato di salute. Pio XII sarebbe morto tre anni dopo. Ma l’estate di 59 anni fa diede modo al cronista colombiano di approdare a Roma, una delle sue più agognate mete perché sede di Cinecittà, la «fabbrica dei sogni degli anni Cinquanta». Lì avrebbe potuto conoscere i suoi tanto ammirati De Sica e Zavattini.
Alloggiò in un hotel in via Nazionale, che poi avrebbe ricordato così: «Le sue finestre erano così vicine alle rovine del Colosseo che non solo si potevano vedere le migliaia di gatti addormentati dal caldo sulle gradinate, ma si poteva anche percepire l’intenso odore della loro urina fermentata». A dieci anni dalla fine della seconda guerra, davanti a lui scorreva l’Italia in bianco e nero, povera e provinciale, vista nelle pellicole neorealiste: «Come in un film di Zavattini, i poveri uscivano sconfitti ma in modo allegro e particolare. Il modo italiano di perdere che hanno i poveri si chiama realismo del cinema», annotava nell’agosto 1955. Ora era lui stesso a camminare in quel set di eroi quotidiani in carne e ossa, che lottavano per seppellire le tracce della guerra, accompagnati da santi, miracoli e riti.
Papa Pacelli e Sofia Loren
Il primo rito che documentò fu l’udienza di Pio XII a Castelgandolfo. Puntava a realizzare la serie di servizi “Sua Santità va in vacanza”, cinque articoli in cinque mesi, dando spazio alla sua ammirazione per le creature dal potere supremo. Inviò un ritratto umano di Pacelli, trovato senza crisi di singhiozzo e in buono stato fisico: «Durante l’udienza, non so per quali associazioni di idee, ho avuto l’impressione che emanasse un profumo di lavanda ». Voleva intervistare suor Pascalina Lehnert, l’influente suora tedesca che amministrava la vita privata del pontefice, «una creatura vaga e misteriosa». Per chiederle, tra le altre cose, qual era il numero di scarpe del Papa, quante paia ne aveva e altri dettagli intimi che il Vaticano occultava in modo ferreo. Non riuscì a sapere il numero di scarpe, ma svelò la sua dieta: «Brodo, un pezzo di carne con verdura cotta, una mela cotta e un bicchiere di vino, un pranzo sciapo perché il suo medico gli ha proibito il sale».
In quei giorni non tralasciò un episodio di cronaca nera, a due passi dal palazzo pontificio venne ritrovato il corpo di una donna, decapitato. La polizia cercava la testa, forse gettata nel lago su cui affaccia la residenza papale. «Forse il Papa sarà l’unico in grado di vedere, da una finestra che domina l’intera superficie del lago, ciò che tutti i romani sono ansiosi di vedere: la testa che la polizia recupererà dalle acque di Castel Gandolfo». Un’immagine che poi trasferirà nella raccolta I funerali della Mamà grande.
Da cronista segnalò l’interesse del pontefice per il cinema e l’udienza privata a una diva: «Un mese fa il Papa ha conosciuto di persona una donna che mezza umanità ha associato al Diavolo: Sofia Loren». Concluse così: «Se per volontà di Dio il Papa avesse perso l’equilibrio, il mio articolo sarebbe stato triste e indesiderato, ma anche un articolo in esclusiva mondiale».
Tenore a Domicilio
Dall’hotel in via Nazionale si trasferì presto in una pensione nel quartiere Parioli. Suo vicino di stanza era il tenore colombiano Rafael Ribero Silva, a Roma da sei anni. I due divennero complici in esplorazioni romane che in seguito avrebbe riportato nel racconto La Santa : «Io e il tenore non facevamo la pennichella pomeridiana. Giravamo sulla sua Vespa, lui guidava e io stavo dietro, all’altezza del motore, e portavamo gelati e cioccolata alle
puttanelle che d’estate svolazzavano in pieno giorno sotto gli allori secolari di Villa Borghese in cerca di turisti insonni. Erano belle, povere ed affettuose, come la maggior parte delle donne italiane dell’epoca, vestite di organza blu e popeline rosa, di lino verde e per proteggersi dal sole usavano gli ombrellini tarmati dalle piogge della recente guerra». Al tenore, suo coetaneo, avrebbe dedicato l’articolo Trionfo lirico a Ginevra: «Alle sette in punto, Rafael si sveglia per fare i suoi esercizi di canto. Le note si frantumano come pietre contro i vetri delle finestre e allora i vicini sanno che è ora di svegliarsi. In altri posti si sarebbe costituita un’associazione di condomini per gettare il tenore dalla finestra. Ma Roma si differenzia dalle altre città del mondo proprio per questo. Per i romani è un lusso avere un tenore in carne e ossa come servizio in camera. È persino più chic di avere un telefono bianco o l’ultimo modello d’automobile».
L’omicidio Montesi
Il tenore fu il suo traduttore in un momento in cui non conosceva l’italiano e doveva consultare fonti molteplici, come per il dettagliato reportage sull’omicidio Montesi, a cui lavorò per tutto agosto e alcuni giorni di settembre. Wilma Montesi aveva 21 anni ed era figlia di un operaio romano; il suo omicidio, due anni prima, era stato coperto per ragioni ancora oscure nel momento in cui Márquez riferiva il caso, evidenziando la decadenza delle classi alte, la corruzione della polizia e la manipolazione politica.
El Espectador gli diede grande rilievo: «Per un intero mese, visitando i posti in cui il delitto si è consumato, Gabriel García Márquez ha scoperto i minimi dettagli della morte di Wilma Montesi e del processo che ne è seguito». Fu un successo pubblicato in 14 puntate. Un lavoro d’oreficeria sulla società italiana.
Venezia, indigestione di film
A metà settembre Gabo fu spedito alla XVI Mostra del cinema di Venezia. Dieci articoli, vedendo film giorno e notte: «È la prima grande indigestione di cinema della mia vita». Del Leone d’oro a Ordet del danese Dreyer scrive: «Era sufficiente Ordet, La parola, perché questo non fosse un anno in bianco per la storia del cinema». Ma i film che lo entusiasmarono di più furono Amici per la pelle di Francesco Rosi (che 35 anni dopo avrebbe diretto Cronaca di una morte annunciata) e Le amiche di Antonioni. Ribattezzò il Festival veneziano «la Democrazia dello smoking», d’obbligo alle proiezioni ufficiali. Noleggiarne uno costava mille lire, all’epoca la paga settimanale di un operaio. Sintetizzò la rivalità tra Loren e Lollobrigida come «la guerra delle misure». Ma lasciò anche il Lido per raccontare un altro cinema, quello di strada: «Per capire il neorealismo italiano, rendersi conto che Cesare Zavattini è uno dei più grandi uomini di questo secolo, è necessario vedere un pranzo da poveri a Venezia. I poveri portano due libbre di pasta al Lido e si mangiano due libbre di maccheroni. Ma non sono le stesse che si sono portati: sono due libbre fatte con le due libbre di ognuno dei vicini. Quando apre il proprio pacco, la mamma di qui dà un po’ di maccheroni alla mamma di là. E quest’ultima dà a quell’altra un altro po’ dei suoi maccheroni. E così, mentre i pacchi si aprono, c’è uno scambio generale di maccheroni e pezzi di pane. Alla fine, tutti hanno mangiato bene. Ma nessuno ha mangiato i propri maccheroni, bensì quelli del vicino. È una caratteristica degli italiani: nei treni, ma solo nei vagoni di terza classe, è facile che ti vada di traverso quel poco di cibo che ti danno tutti gli altri».
A scuola di neorealismo
Nella capitale – dove si era iscritto al corso di regia del Centro sperimentale di cinematografia – non scrisse nessun libro, ma il cinema fece da semenzaio al suo immaginario e al suo sguardo. Molti anni più tardi, avrebbe dichiarato: «Non sono venuto a Roma per studiare cinema, ma per imparare il Neorealismo ». Nel 1950 di Ladri di biciclette di De Sica aveva scritto: «Gli italiani stanno facendo cinema per strada, senza teatri di posa, trucchi di scena, com’è la vita stessa». Di Miracolo a Milano, nel 1954: «È tutta una favola, solo che realizzata in un ambiente insolito e mescolata in modo geniale, fantasia e realtà, fino al punto estremo che in molti casi non è possibile sapere dove cominci l’una e dove finisca l’altra». In un’intervista a Gianni Minà in Messico, nel 1992, disse chiaramente: «Nessuno ha mai pensato che Miracolo a Milano è la radice più probabile del romanzo latinoamericano?». E ancora: «Oggi non potete immaginare che cos’ha voluto dire per la nostra generazione il Neorealismo. È stato come inventare di nuovo il cinema. Noi vedevamo film di guerra o di Marcel Carné e di quei francesi che si imponevano per norma artistica e poi, all’improvviso, arriva il neorealismo dall’Italia, con film fatti con pellicole di scarto, con attori che, si diceva, non avevano mai visto una telecamera in vita loro. Tuttavia era un cinema perfetto».
La lezione di Zavattini
Grazie al cineasta argentino Fernando Birri incontrò Zavattini. «Era una macchina, i pensieri gli uscivano a fiotti, quasi contro la sua volontà – annota Márquez – E con tanta fretta, che sempre gli mancava l’aiuto di qualcuno per pensarli a voce alta o prenderli al volo. Conservava le idee in biglietti ordinati per temi, attaccati sul muro con delle puntine, e ne aveva così tanti che occupavano un angolo di casa sua». Il maestro italiano aveva 53 anni, era un cineasta celebre e non poteva immaginare l’impatto culturale che la sua creatura artistica, il Neorealismo, avrebbe generato sull’allievo venuto dal Nuovo mondo. Nel discorso pronunciato all’Avana per l’inaugurazione della scuola di cinema da lui fondata e intitolata a Cesare Zavattini, il 4 dicembre 1986, riassume così l’esperienza romana: «Già da allora parlavamo quasi tanto come adesso del cinema che bisognava fare in Sudamerica e di come bisognava farlo, e i nostri pensieri erano ispirati al Neorealismo italiano, che è – come dovrebbe essere il nostro – il cinema con meno risorse e il più umano che sia mai stato fatto. In quel giorni romani ho vissuto la mia unica avventura in un squadra di regia. Sono stato nella scuola come terzo assistente del regista Alessandro Blasetti nel film Peccato che sia una canaglia, e questo mi ha dato grande felicità, non tanto per il mio progresso personale quanto per l’occasione di conoscere la protagonista del film, Sofia Loren. Ma non sono mai riuscito a vederla, perché il mio lavoro consisteva, per più di un mese, nel reggere una corda all’angolo perché non passassero curiosi. È a questo titolo, e non con i molti e rimbombanti che ho ottenuto per il mio lavoro di romanziere, che adesso mi sono permesso di essere presidente di questa Casa come non lo sono mai stato nella mia, e di parlare a nome di tanta gente di cinema degna di nota». Era arrivato a Roma con la canicola d’agosto. Un giorno di pioggia, prima di Natale, partì per Parigi.
Mary Villalobos