La Stampa, lunedì 20 luglio 2009, 5 agosto 2014
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Il poliziotto buono (20/7/2009)
La Stampa, lunedì 20 luglio 2009
Il compito più ingrato gli capitò la sera del 26 gennaio 1979. Dirigeva il sopralluogo sulla scena dell’omicidio del giornalista Mario Francese, finito a revolverate qualche minuto prima da un killer solitario. La strada, viale Campania, era affollata di cronisti e tra questi Giulio, il figlio maggiore di Mario, che non conosceva ancora l’identità della vittima. Boris Giuliano, allora capo della squadra mobile, lo vide avvicinarsi e capì a quale terribile prova, di lì a poco, si sarebbe dovuto sottoporre. Prese Giulio per un braccio e lo sottrasse alla curiosità della calca, poi - quasi chiedendo perdono per quel che stava per dire - sussurrò: «Giulio, è tuo padre».
Come accade sovente nell’infinita tragedia palermitana, due destini – apparentemente distanti – si incrociavano in un preludio che avrebbe avuto il seguito non molto tempo appresso, quando, sei mesi e cinque giorni dopo, la mattina del 21 di luglio, un killer solitario uccise il mito palermitano: il vicequestore Giorgio Boris Giuliano, per tutti semplicemente Boris. A quel sicario le indagini daranno identità e condanna: si chiama Leoluca Bagarella, il cognato del padrino Totò Riina, lo stesso che aveva assassinato il papà di Giulio.
Era andato a prendere un caffè al Bar Lux, a due passi da casa, il poliziotto Boris. Era solo in città, Maria – la moglie – e i bambini, Alessandro, Emanuela e Selima, si trovavano in vacanza. Lo avevano minacciato, «Giuliano morirà» aveva gridato una voce anonima al centralino del 113, ma lui non si era scomposto più di tanto. Non perché non desse peso alle minacce, anzi quella voce l’aveva pure riconosciuta, ma perché il poliziotto Boris non era un carattere facilmente impressionabile. E poi, quello era il suo lavoro, era il suo dovere (allora questa parola non veniva considerata vuota retorica) di servitore dello Stato.
E ne aveva «importunate» di persone, Boris. Delinquenti, mafiosi, tranquilli borghesi abilmente mimetizzati dentro l’immonda zona grigia che non è società civile, non è mafia ma è tutte queste cose insieme. Aveva scovato il nascondiglio di Bagarella a corso dei Mille e quindi scoperto che la mafia corleonese era sbarcata a Palermo. Lui, il killer non c’era, ma Boris trovò il suo documento di identità, quattro chili di eroina pura e un set di revolver micidiali. Tutto materiale che la squadra mobile di Giuliano, quell’irripetibile gruppo di lavoro, avrebbe poi utilizzato nel migliore dei modi. «Se altri organismi dello Stato - scriverà Paolo Borsellino nell’ordinanza del maxi-processo - avessero assecondato l’intelligente opera investigativa di Boris Giuliano, l’organizzazione criminale mafiosa non si sarebbe sviluppata sino a questo punto».
Aveva indagato su tutto, quella squadra mobile. Da De Mauro a Scaglione, l’omicidio del colonnello Russo e del brigadiere Aparo. Per primi quei funzionari avrebbero «fatto scomodare» i cugini Nino e Ignazio Salvo, invitandoli negli uffici della caserma che oggi è intitolata a Boris e costringendoli ad offrirsi all’invadenza del fotografi. Un evento, quell’interrogatorio, in una città abituata a non nominare neppure i «potenti cugini», tanto potenti che se c’era da interrogarli si andava a trovarli a casa. E che scandalo quando Boris trovò (anche grazie al feeling con i detectives Usa) il filo che partiva dall’eroina e tornava sotto forma di «banconote verdi»: il mezzo milione di dollari nascosto nella valigia abbandonata all’aeroporto di Punta Raisi, proprio mentre John Gambino, quello delle pizzerie di New York, il pupillo del vecchio Charlie, trascorreva le vacanze a Palermo. Per non parlare poi della «visita» che Boris fece allo sportello della Cassa di Risparmio per chiedere notizie di un signore, tale Joseph Bonamico, che aveva eseguito un’operazione per centomila dollari con la garanzia dei potenti Spatola. Il cassiere tradì qualche disagio mentre Boris apprendeva che la foto apposta sul passaporto esibito certamente non apparteneva al fantomatico Bonamico, visto che riproduceva le sembianze del finanziere Michele Sindona.
Lunedì e martedì prossimi Palermo, con grande ritardo ma meglio tardi che mai, ricorderà Boris Giuliano per il trentennale. Un libro di foto inedite, un cd con immagini raccolte dai colleghi vecchi e giovani di Boris, una docu-fiction di Roberto Greco che è anche un atto d’amore, due giornate di celebrazioni che saranno occasione istituzionale (presenti due ministri e il capo della Polizia) ma anche imperdibile occasione affettiva. Martedì si riunirà ancora «la squadra»: De Luca, Boncoraglio, Moscarelli, Speranza, Crimi, Incalza, Vasquez ancora tutti insieme come trent’anni fa. La stessa che ha dato il titolo al bel libro di Daniele Billitteri: «Boris Giuliano/La squadra dei Giusti». Mancheranno Bruno Contrada e Ignazio D’Antone, condannati per mafia, a riprova di quanto contraddittoria possa essere - in una città difficile come Palermo - anche la storia dell’Antimafia. Ma i due funzionari saranno lo stesso presenti nella memoria della squadra, «perché di quella stagione a tutti gli effetti furono partecipi, quale che sia il risultato di una ricostruzione processuale postuma e forse non perfetta».
Ma sarà la famiglia di Boris al centro dell’anniversario: la moglie, Maria, che con le figlie e la collaborazione sincera della Questura di Palermo ha potuto realizzare questo «atto di profondo amore», per dirla con le parole del questore Alessandro Marangoni. E un po’ sarà anche il giorno di Alessandro Giuliano, a 42 anni capo della squadra mobile di Milano. È la fotocopia vivente del padre, il giovane dirigente della polizia: cammina, imposta le braccia, sorride e si rabbuia come faceva Boris. Era bambino quando perse il bene più prezioso, ma il seme era buono: Alessandro è un ottimo poliziotto e un uomo buono, come il padre. Di Boris ricorda la «Lettera al figlio» di Kipling che il capo della squadra mobile teneva appesa in ufficio e la «confidenza» ricevuta poco prima dell’agguato del Bar Lux: «Mi prese in disparte e trattandomi quasi da uomo adulto mi disse che gli sarebbe potuto capitare qualcosa a causa delle indagini sulla droga che stava svolgendo». Con un «viatico» del genere, Alessandro non poteva che diventare «sbirro» pure lui.
Il compito più ingrato gli capitò la sera del 26 gennaio 1979. Dirigeva il sopralluogo sulla scena dell’omicidio del giornalista Mario Francese, finito a revolverate qualche minuto prima da un killer solitario. La strada, viale Campania, era affollata di cronisti e tra questi Giulio, il figlio maggiore di Mario, che non conosceva ancora l’identità della vittima. Boris Giuliano, allora capo della squadra mobile, lo vide avvicinarsi e capì a quale terribile prova, di lì a poco, si sarebbe dovuto sottoporre. Prese Giulio per un braccio e lo sottrasse alla curiosità della calca, poi - quasi chiedendo perdono per quel che stava per dire - sussurrò: «Giulio, è tuo padre».
Come accade sovente nell’infinita tragedia palermitana, due destini – apparentemente distanti – si incrociavano in un preludio che avrebbe avuto il seguito non molto tempo appresso, quando, sei mesi e cinque giorni dopo, la mattina del 21 di luglio, un killer solitario uccise il mito palermitano: il vicequestore Giorgio Boris Giuliano, per tutti semplicemente Boris. A quel sicario le indagini daranno identità e condanna: si chiama Leoluca Bagarella, il cognato del padrino Totò Riina, lo stesso che aveva assassinato il papà di Giulio.
Era andato a prendere un caffè al Bar Lux, a due passi da casa, il poliziotto Boris. Era solo in città, Maria – la moglie – e i bambini, Alessandro, Emanuela e Selima, si trovavano in vacanza. Lo avevano minacciato, «Giuliano morirà» aveva gridato una voce anonima al centralino del 113, ma lui non si era scomposto più di tanto. Non perché non desse peso alle minacce, anzi quella voce l’aveva pure riconosciuta, ma perché il poliziotto Boris non era un carattere facilmente impressionabile. E poi, quello era il suo lavoro, era il suo dovere (allora questa parola non veniva considerata vuota retorica) di servitore dello Stato.
E ne aveva «importunate» di persone, Boris. Delinquenti, mafiosi, tranquilli borghesi abilmente mimetizzati dentro l’immonda zona grigia che non è società civile, non è mafia ma è tutte queste cose insieme. Aveva scovato il nascondiglio di Bagarella a corso dei Mille e quindi scoperto che la mafia corleonese era sbarcata a Palermo. Lui, il killer non c’era, ma Boris trovò il suo documento di identità, quattro chili di eroina pura e un set di revolver micidiali. Tutto materiale che la squadra mobile di Giuliano, quell’irripetibile gruppo di lavoro, avrebbe poi utilizzato nel migliore dei modi. «Se altri organismi dello Stato - scriverà Paolo Borsellino nell’ordinanza del maxi-processo - avessero assecondato l’intelligente opera investigativa di Boris Giuliano, l’organizzazione criminale mafiosa non si sarebbe sviluppata sino a questo punto».
Aveva indagato su tutto, quella squadra mobile. Da De Mauro a Scaglione, l’omicidio del colonnello Russo e del brigadiere Aparo. Per primi quei funzionari avrebbero «fatto scomodare» i cugini Nino e Ignazio Salvo, invitandoli negli uffici della caserma che oggi è intitolata a Boris e costringendoli ad offrirsi all’invadenza del fotografi. Un evento, quell’interrogatorio, in una città abituata a non nominare neppure i «potenti cugini», tanto potenti che se c’era da interrogarli si andava a trovarli a casa. E che scandalo quando Boris trovò (anche grazie al feeling con i detectives Usa) il filo che partiva dall’eroina e tornava sotto forma di «banconote verdi»: il mezzo milione di dollari nascosto nella valigia abbandonata all’aeroporto di Punta Raisi, proprio mentre John Gambino, quello delle pizzerie di New York, il pupillo del vecchio Charlie, trascorreva le vacanze a Palermo. Per non parlare poi della «visita» che Boris fece allo sportello della Cassa di Risparmio per chiedere notizie di un signore, tale Joseph Bonamico, che aveva eseguito un’operazione per centomila dollari con la garanzia dei potenti Spatola. Il cassiere tradì qualche disagio mentre Boris apprendeva che la foto apposta sul passaporto esibito certamente non apparteneva al fantomatico Bonamico, visto che riproduceva le sembianze del finanziere Michele Sindona.
Lunedì e martedì prossimi Palermo, con grande ritardo ma meglio tardi che mai, ricorderà Boris Giuliano per il trentennale. Un libro di foto inedite, un cd con immagini raccolte dai colleghi vecchi e giovani di Boris, una docu-fiction di Roberto Greco che è anche un atto d’amore, due giornate di celebrazioni che saranno occasione istituzionale (presenti due ministri e il capo della Polizia) ma anche imperdibile occasione affettiva. Martedì si riunirà ancora «la squadra»: De Luca, Boncoraglio, Moscarelli, Speranza, Crimi, Incalza, Vasquez ancora tutti insieme come trent’anni fa. La stessa che ha dato il titolo al bel libro di Daniele Billitteri: «Boris Giuliano/La squadra dei Giusti». Mancheranno Bruno Contrada e Ignazio D’Antone, condannati per mafia, a riprova di quanto contraddittoria possa essere - in una città difficile come Palermo - anche la storia dell’Antimafia. Ma i due funzionari saranno lo stesso presenti nella memoria della squadra, «perché di quella stagione a tutti gli effetti furono partecipi, quale che sia il risultato di una ricostruzione processuale postuma e forse non perfetta».
Ma sarà la famiglia di Boris al centro dell’anniversario: la moglie, Maria, che con le figlie e la collaborazione sincera della Questura di Palermo ha potuto realizzare questo «atto di profondo amore», per dirla con le parole del questore Alessandro Marangoni. E un po’ sarà anche il giorno di Alessandro Giuliano, a 42 anni capo della squadra mobile di Milano. È la fotocopia vivente del padre, il giovane dirigente della polizia: cammina, imposta le braccia, sorride e si rabbuia come faceva Boris. Era bambino quando perse il bene più prezioso, ma il seme era buono: Alessandro è un ottimo poliziotto e un uomo buono, come il padre. Di Boris ricorda la «Lettera al figlio» di Kipling che il capo della squadra mobile teneva appesa in ufficio e la «confidenza» ricevuta poco prima dell’agguato del Bar Lux: «Mi prese in disparte e trattandomi quasi da uomo adulto mi disse che gli sarebbe potuto capitare qualcosa a causa delle indagini sulla droga che stava svolgendo». Con un «viatico» del genere, Alessandro non poteva che diventare «sbirro» pure lui.
Francesco La Licata