Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 14 Lunedì calendario

Il primo editore dei Cent’anni racconta

la Repubblica, 5 febbraio 2007
L’anno magico di Gabriel García Márquez si apre domani con il suo ottantesimo compleanno, prosegue con il quarantesimo anniversario della pubblicazione, a Buenos Aires nel maggio 1967, dei Cent’anni di solitudine, e si chiude a ottobre con i venticinque anni dall’assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1982. Un anno breve - soltanto sette mesi - che con sincronismo fatale contiene e riassume l’avventura di un mito vivente della letteratura. «Un genio verbale», come lo ricorda Francisco Porrúa, il papà dei Cent’anni, direttore della casa editrice Sudamericana che lo mandò in stampa dopo averne letto le prime cinque righe.

Nel 1967 lei conosceva García Márquez?
«Assolutamente no. In quell´epoca eravamo a caccia di romanzi latino americani originali. Che non fossero repliche o opere simili né ai classici né all’avanguardia europea. Cercavamo una letteratura con caratteri propri, indigeni. E incontrammo García Márquez. All’inizio del 1967 un amico mi diede da leggere una novella breve, Nessuno scrive al colonnello, e siccome mi piacque mandai una lettera all’autore per chiedere se potevo pubblicarla in Argentina. Qualche settimana dopo egli mi scrisse che aveva già venduto i diritti ma che, se volevo, avrei potuto pubblicare una cosa nuova che stava finendo di scrivere. Così arrivarono i Cent’anni a Buenos Aires».
S’immaginò il successo che avrebbero avuto?
«Mentirei se rispondessi di sì. Quello che ricordo è che decisi che l’avremmo pubblicato dopo aver letto soltanto le prime righe, la prima pagina. Però ricordo anche che Márquez aveva accettato di stamparne anche solo tremila copie mentre noi ne stampammo subito ottomila. Andarono esaurite in meno di quindici giorni».
Quanto fu importante per il successo del libro pubblicare a Buenos Aires piuttosto che in un’altra capitale di lingua spagnola?
«Sul finire degli anni Sessanta Buenos Aires era già una metropoli piuttosto vivace con un grande numero di lettori, di appassionati molto attenti alle novità editoriali. C’era molto teatro, molto cinema e c’erano anche delle riviste letterarie importanti che apprezzarono e promossero subito il libro di García Márquez. Fra i Cent’anni e il pubblico di Buenos Aires si produsse un cortocircuito straordinario e raro come un’eclissi. Dopo qualche settimana tutta la città lo stava leggendo. Non ho idea di cosa sarebbe potuto succedere se fosse stato pubblicato da un’altra parte ma senza alcun dubbio fu Buenos Aires a decretarne il successo e a lanciare il romanzo in tutto il mondo. Furono, quelli, anni molto speciali e durarono anche molto poco. Già all’inizio del decennio successivo il clima culturale cambiò in fretta: terrorismo, lotta politica, golpe militare. Un’altra epoca geologica. Ma alla fine dei Sessanta Buenos Aires era la città che meglio poteva accogliere un libro come quello».
A un certo punto finì la carta per stamparne nuove copie...
«Sì, finimmo le riserve di carta e non sapevamo dove trovarne altra. Ci toccò chiederla in prestito ad altre case editrici e acquistarne fuori dall’Argentina per continuare a stampare nuove edizioni del libro con quei ritmi. Durante tutto l’inverno australe e poi fino a metà dell´anno successivo dei Cent´anni se ne vendevano mille copie ogni giorno».
García Márquez è un uomo molto riservato. Molto raramente concede interviste, non si mostra in pubblico neanche quando escono i suoi libri e sembra piuttosto infastidito dalle attenzioni che la fama gli riserva. Era così anche allora?
«È timido e sospettoso. Ricordo che quando venne a Buenos Aires quell’anno e ci conoscemmo si sentiva sinceramente oppresso dalle attenzioni del pubblico. La gente lo fermava per la strada e lui non sapeva cosa fare. Una sera andammo in un teatro e durante l´intervallo qualcuno che l’aveva riconosciuto salì sul palco e disse che in sala c’era l´autore dei Cent’anni di solitudine. Venne letteralmente giù il teatro: tutti si alzarono in piedi per applaudirlo. Erano tutti suoi lettori e lui era la cosa più alla moda che c’era in città. Se poi vuol sapere quanto il successo lo abbia cambiato, non saprei. La mia impressione è sempre stata che il García Márquez uomo comune e il García Márquez scrittore siano identici. Coincidono. Anche l’uomo comune è un genio verbale che comunica attraverso metafore».
Da quella volta in cui lei lo invitò nel 1967 egli non è mai più tornato a Buenos Aires. Come neppure è mai tornato - almeno pubblicamente - nei luoghi dell’infanzia, quelli che ispirarono le atmosfere dei Cent’anni come Aracataca e la Sierra di Santa Marta. Ne conosce la ragione?
«Una volta gliel’ho domandato. C’è sicuramente un po’ di superstizione ma soprattutto c’è il timore di rivedere un luogo nel quale sono accadute cose straordinarie e scoprirlo diverso da come si ricorda. È un modo per proteggersi. Per lui vedere Buenos Aires diversa dalla città che lo trasformò in un mito letterario non avrebbe senso».
Borges disse che il libro non gli piaceva perché c’erano almeno cinquanta pagine di troppo. Era invidioso?
«Non credo. Io ero anche il suo editore e non ne parlammo mai. Però è vero che Borges odiava i romanzi e che, in molti casi, i suoi giudizi sui contemporanei erano conseguenza dei suoi capricci. Borges non era capace di scrivere romanzi e probabilmente neppure di leggerli. Lui amava Kafka perché aveva scritto racconti brevi».
Lei ha pubblicato, per primo in spagnolo, almeno tre dei libri più venduti nel ventesimo secolo. Le Cronache marziane di Bradbury, i Cent’anni e Il Signore degli anelli. Solo fortuna?
«Non lo so, erano altri tempi. Non ho mai scelto un libro pensando al suo valore commerciale. Pubblicavo soltanto se mi piaceva e ho sempre pensato che il valore commerciale di un libro si può valutare solo nel tempo. È meglio un romanzo che vende centomila copie subito o un altro che vende per cinquant´anni? Ovviamente il secondo. E allora bisogna guardare al suo valore letterario. Se c’è quello, qualsiasi investimento vale la pena. Oggi l’industria editoriale ha altri principi e altri obiettivi che io non condivido più. Ma ho sempre lavorato pensando che l’editore è un "signor Nessuno" rispetto all´autore e tale deve rimanere. Ancora oggi, quando mi invitano da qualche parte scrivono: “Francisco Porrúa, l’editore dei Cent’anni di solitudine”. Per me è diventato come un secondo nome. Quando pubblicai Gabo ero un impiegato e prendevo uno stipendio come direttore editoriale. Quindi non ci guadagni una lira ed è stato giusto così».
Si dice che i Cent’anni siano il Don Chisciotte del ventesimo secolo. È d’accordo?
«Non amo i paragoni. Penso che il capolavoro esista quando l’autore costruisce un universo proprio, tale che non possa essere paragonato con quello di nessun altro. Poi bisogna aggiungere che l’opera di Márquez ebbe una importanza straordinaria perché fece nascere il famoso boom dei latino-americani e quindi fece conoscere in tutto il mondo una letteratura nuova e assolutamente originale».
Omero Ciai