la Repubblica, 28 marzo 2007, 14 luglio 2014
Tags : Cent’anni di solitudine
Un articolo di García Márquez
la Repubblica, 28 marzo 2007
Questo è il discorso pronunciato lunedì da Gabriel García Márquez a Cartagena
Neppure nel più delirante dei miei sogni, nei giorni in cui scrivevo Cent’anni di solitudine, arrivai ad immaginare la possibilità che avrei potuto partecipare ad una celebrazione nella quale sarebbe stata lanciata una edizione da un milione di copie. Pensare che un milione di persone avrebbero potuto leggere qualcosa che ho scritto nella solitudine della mia stanza con ventotto lettere dell´alfabeto e appena due dita mi sarebbe sembrata una completa follia.
Non so a che ora accadde tutto. So soltanto che, da quando ho compiuto diciassette anni e fino a stamattina, non ho fatto altra cosa nella vita che svegliarmi presto e sedermi davanti ad una tastiera per riempire una pagina bianca di una macchina da scrivere o di un computer, con l´unico obiettivo di scrivere una storia originale, non ancora raccontata da nessuno, che rende felice la vita di un lettore inesistente. Nel mio modo abitudinario di scrivere ogni giorno, nulla è cambiato da allora. Non ho mai visto niente di diverso dei due indici delle mie mani battendo, uno ad uno ma con un buon ritmo, le ventotto lettere dell´alfabeto che ho tenuto davanti ai miei occhi nel corso di questi settanta e tanti anni (la sala ride perché non dice «ottanta», ndr).
I lettori di Cent’anni di solitudine sono oggi una comunità tale che, se vivessero tutti nello stesso pezzo di terra, sarebbero uno dei venti paesi più popolati del mondo. Non si tratta di una affermazione vanagloriosa. Al contrario, voglio solo dimostrare che esiste una gigantesca quantità di persone che hanno dimostrato con la loro abitudine alla lettura che possiedono un´anima aperta, disposta ad essere colmata di messaggi in castigliano.
Quando avevo da poco compiuto trentotto anni, con quattro libri già pubblicati da quando ne avevo venti, mi sedetti di fronte alla macchina da scrivere ed iniziai: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva portato a riconoscere il ghiaccio». Non avevo la più pallida idea del significato né dell´origine di questa frase. Né avevo idea di dove mi avrebbe portato. Quello che so oggi è che non smisi di scrivere neppure per un solo giorno per diciotto mesi di seguito, finché non terminai il libro. Sembrerà una bugia, ma in quei giorni la mia unica ansia era quella di avere abbastanza carta per scrivere. Avevo la cattiva educazione di credere che gli errori meccanografici, di linguaggio o di grammatica, fossero in realtà errori di creazione. E ogni volta che sbagliavo a battere un tasto strappavo la pagina e la buttavo nel cestino per ricominciare di nuovo daccapo.
Con il ritmo che avevo preso, dopo un anno di pratica calcolai che avrei avuto bisogno di sei mesi lavorando tutte le mattine per terminarlo. Esperanza Ariza, l´indimenticabile "Pera", era una segretaria di poeti e cineasti che aveva messo in bella copia grandi opere di scrittori messicani. Da Carlos Fuentes a Juan Rulfo senza dimenticare numerosi soggetti originali di Luis Buñuel. Quando le proposi di mettere in bella la versione finale dei Cent’anni, il romanzo era un manoscritto mitragliato prima con l´inchiostro nero e poi con quello rosso, per evitare confusioni. Ma questo non era nulla per una donna abituata a tutto in una gabbia di matti. Qualche anno dopo, Pera mi confessò che mentre portava a casa la versione che io avevo rivisto scivolò scendendo dall´autobus mentre a Città del Messico diluviava e i fogli dispersi finirono a galleggiare sull´acqua lungo la strada. Li raccolse bagnati e quasi illeggibili con l´aiuto di altri passeggeri dell´autobus e li asciugò nella sua casa, foglio per foglio, con un ferro da stiro.
Ciò che potrebbe essere soggetto di un libro migliore dei Cent’anni sarebbe raccontare come riuscimmo a sopravvivere io, Mercedes e i nostri due piccoli figli durante quei diciotto mesi nei quali non guadagnai neppure un centesimo da nessuna parte. Non so neppure come fece Mercedes in quei mesi affinché non mancasse, neppure per un giorno, da mangiare nella nostra casa. Ricordo che resistemmo all´idea di chiedere prestiti a qualche strozzino finché un giorno, esausti, stringendo il cuore facemmo la nostra prima incursione al Monte di Pietà. Dopo aver impegnato alcuni oggetti di poca importanza dovemmo far ricorso ai gioielli che Mercedes aveva ricevuto in eredità dalla sua famiglia nel corso degli anni. L´esperto li esaminò con il rigore di un chirurgo. Guardò e riguardò con il suo occhio magico i diamanti degli anelli, gli smeraldi delle collane e i rubini degli orecchini e, alla fine, ci riconsegnò tutto con un´ampia veronica da torero: «Tutto quello che mi avete portato non è altro che vetro».
In uno dei momenti di maggiore difficoltà per la nostra sopravvivenza, Mercedes consultò le stelle e disse al padrone di casa senza che le tremasse neanche un attimo la voce: «Le pagheremo l´affitto tutto insieme, tra sei mesi!». «Scusi signora», le rispose il proprietario, «si rende conto che tra sei mesi sarà una somma enorme?». «Certo che me ne rendo conto», gli disse Mercedes impassibile, «ma tra sei mesi avremo risolto tutto, stia tranquillo».
Neppure al buon uomo, che era un funzionario dello Stato e una delle persone più eleganti e più pazienti che abbiamo mai conosciuto, tremò la voce nel risponderle: «Bene signora, la sua parola è sufficiente». E fece il suo conto mortale: «L´aspetto il 7 settembre».
Infine, all´inizio di agosto del 1966, io e Mercedes andammo all´ufficio postale di Città del Messico per spedire a Buenos Aires la versione definitiva dei Cent’anni di solitudine. Un pacco di 590 pagine scritte a macchina, con doppio spazio e su carta ordinaria, diretto a Francisco Porrúa, direttore editoriale di Sudamericana.
L´impiegato della posta mise il pacchetto sulla bilancia, fece i suoi calcoli mentalmente e disse: «Sono 82 pesos». Mercedes contò i biglietti e le monete che le restavano nel portafogli e si scontrò con la realtà: «Ne abbiamo solo 53». Così aprimmo il pacco, lo dividemmo in due parti uguali e ne spedimmo una a Buenos Aires senza pensare neppure come avremmo fatto per spedire l´altra metà. Solo più tardi ci accorgemmo che non avevamo spedito la prima parte del libro ma la seconda. Ma prima di dover trovare i soldi per rimediare al disastro ricevemmo una telefonata di Paco Porrúa da Buenos Aires. Dopo aver letto la fine, Porrúa voleva assolutamente leggere anche l´inizio del romanzo. Grazie a ciò ci anticipò i soldi per la seconda spedizione. E´ in questo modo che siamo tornati a nascere nella vita di oggi.
Questo è il discorso pronunciato lunedì da Gabriel García Márquez a Cartagena
Neppure nel più delirante dei miei sogni, nei giorni in cui scrivevo Cent’anni di solitudine, arrivai ad immaginare la possibilità che avrei potuto partecipare ad una celebrazione nella quale sarebbe stata lanciata una edizione da un milione di copie. Pensare che un milione di persone avrebbero potuto leggere qualcosa che ho scritto nella solitudine della mia stanza con ventotto lettere dell´alfabeto e appena due dita mi sarebbe sembrata una completa follia.
Non so a che ora accadde tutto. So soltanto che, da quando ho compiuto diciassette anni e fino a stamattina, non ho fatto altra cosa nella vita che svegliarmi presto e sedermi davanti ad una tastiera per riempire una pagina bianca di una macchina da scrivere o di un computer, con l´unico obiettivo di scrivere una storia originale, non ancora raccontata da nessuno, che rende felice la vita di un lettore inesistente. Nel mio modo abitudinario di scrivere ogni giorno, nulla è cambiato da allora. Non ho mai visto niente di diverso dei due indici delle mie mani battendo, uno ad uno ma con un buon ritmo, le ventotto lettere dell´alfabeto che ho tenuto davanti ai miei occhi nel corso di questi settanta e tanti anni (la sala ride perché non dice «ottanta», ndr).
I lettori di Cent’anni di solitudine sono oggi una comunità tale che, se vivessero tutti nello stesso pezzo di terra, sarebbero uno dei venti paesi più popolati del mondo. Non si tratta di una affermazione vanagloriosa. Al contrario, voglio solo dimostrare che esiste una gigantesca quantità di persone che hanno dimostrato con la loro abitudine alla lettura che possiedono un´anima aperta, disposta ad essere colmata di messaggi in castigliano.
Quando avevo da poco compiuto trentotto anni, con quattro libri già pubblicati da quando ne avevo venti, mi sedetti di fronte alla macchina da scrivere ed iniziai: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva portato a riconoscere il ghiaccio». Non avevo la più pallida idea del significato né dell´origine di questa frase. Né avevo idea di dove mi avrebbe portato. Quello che so oggi è che non smisi di scrivere neppure per un solo giorno per diciotto mesi di seguito, finché non terminai il libro. Sembrerà una bugia, ma in quei giorni la mia unica ansia era quella di avere abbastanza carta per scrivere. Avevo la cattiva educazione di credere che gli errori meccanografici, di linguaggio o di grammatica, fossero in realtà errori di creazione. E ogni volta che sbagliavo a battere un tasto strappavo la pagina e la buttavo nel cestino per ricominciare di nuovo daccapo.
Con il ritmo che avevo preso, dopo un anno di pratica calcolai che avrei avuto bisogno di sei mesi lavorando tutte le mattine per terminarlo. Esperanza Ariza, l´indimenticabile "Pera", era una segretaria di poeti e cineasti che aveva messo in bella copia grandi opere di scrittori messicani. Da Carlos Fuentes a Juan Rulfo senza dimenticare numerosi soggetti originali di Luis Buñuel. Quando le proposi di mettere in bella la versione finale dei Cent’anni, il romanzo era un manoscritto mitragliato prima con l´inchiostro nero e poi con quello rosso, per evitare confusioni. Ma questo non era nulla per una donna abituata a tutto in una gabbia di matti. Qualche anno dopo, Pera mi confessò che mentre portava a casa la versione che io avevo rivisto scivolò scendendo dall´autobus mentre a Città del Messico diluviava e i fogli dispersi finirono a galleggiare sull´acqua lungo la strada. Li raccolse bagnati e quasi illeggibili con l´aiuto di altri passeggeri dell´autobus e li asciugò nella sua casa, foglio per foglio, con un ferro da stiro.
Ciò che potrebbe essere soggetto di un libro migliore dei Cent’anni sarebbe raccontare come riuscimmo a sopravvivere io, Mercedes e i nostri due piccoli figli durante quei diciotto mesi nei quali non guadagnai neppure un centesimo da nessuna parte. Non so neppure come fece Mercedes in quei mesi affinché non mancasse, neppure per un giorno, da mangiare nella nostra casa. Ricordo che resistemmo all´idea di chiedere prestiti a qualche strozzino finché un giorno, esausti, stringendo il cuore facemmo la nostra prima incursione al Monte di Pietà. Dopo aver impegnato alcuni oggetti di poca importanza dovemmo far ricorso ai gioielli che Mercedes aveva ricevuto in eredità dalla sua famiglia nel corso degli anni. L´esperto li esaminò con il rigore di un chirurgo. Guardò e riguardò con il suo occhio magico i diamanti degli anelli, gli smeraldi delle collane e i rubini degli orecchini e, alla fine, ci riconsegnò tutto con un´ampia veronica da torero: «Tutto quello che mi avete portato non è altro che vetro».
In uno dei momenti di maggiore difficoltà per la nostra sopravvivenza, Mercedes consultò le stelle e disse al padrone di casa senza che le tremasse neanche un attimo la voce: «Le pagheremo l´affitto tutto insieme, tra sei mesi!». «Scusi signora», le rispose il proprietario, «si rende conto che tra sei mesi sarà una somma enorme?». «Certo che me ne rendo conto», gli disse Mercedes impassibile, «ma tra sei mesi avremo risolto tutto, stia tranquillo».
Neppure al buon uomo, che era un funzionario dello Stato e una delle persone più eleganti e più pazienti che abbiamo mai conosciuto, tremò la voce nel risponderle: «Bene signora, la sua parola è sufficiente». E fece il suo conto mortale: «L´aspetto il 7 settembre».
Infine, all´inizio di agosto del 1966, io e Mercedes andammo all´ufficio postale di Città del Messico per spedire a Buenos Aires la versione definitiva dei Cent’anni di solitudine. Un pacco di 590 pagine scritte a macchina, con doppio spazio e su carta ordinaria, diretto a Francisco Porrúa, direttore editoriale di Sudamericana.
L´impiegato della posta mise il pacchetto sulla bilancia, fece i suoi calcoli mentalmente e disse: «Sono 82 pesos». Mercedes contò i biglietti e le monete che le restavano nel portafogli e si scontrò con la realtà: «Ne abbiamo solo 53». Così aprimmo il pacco, lo dividemmo in due parti uguali e ne spedimmo una a Buenos Aires senza pensare neppure come avremmo fatto per spedire l´altra metà. Solo più tardi ci accorgemmo che non avevamo spedito la prima parte del libro ma la seconda. Ma prima di dover trovare i soldi per rimediare al disastro ricevemmo una telefonata di Paco Porrúa da Buenos Aires. Dopo aver letto la fine, Porrúa voleva assolutamente leggere anche l´inizio del romanzo. Grazie a ciò ci anticipò i soldi per la seconda spedizione. E´ in questo modo che siamo tornati a nascere nella vita di oggi.
Gabriel García Márquez