Corriere della Sera, 18 aprile 2014, 13 luglio 2014
Tags : García Márquez politico
Vita politica in breve
Corriere della Sera, 18 aprile 2014
Figlio di un Paese, la Colombia, e di un continente, l’America Latina, condannati a subire per una sorta di maledizione geopolitica regimi dittatoriali, politicanti corrotti, spietati padroni locali e rapaci multinazionali, Gabriel García Márquez non poteva non approdare alla fede rivoluzionaria. Una fede che riconosceva come unico líder Fidel Castro e come unica forma possibile di governo quella instaurata a Cuba nel 1959.
In quello stesso anno, Márquez è all’Avana, come giornalista invitato dal governo rivoluzionario per assistere ai processi contro gli uomini della caduta dittatura. Arrivava dal Venezuela, dove lavorava in esilio per giornali dell’opposizione. Subito accetta di diventare corrispondente negli Stati Uniti per Prensa Latina, l’agenzia di stampa creata dal Che per smascherare la propaganda statunitense che condannava l’avvicinamento di Castro all’Unione Sovietica.
Sono i giorni dell’embargo, del fallito attacco alla Baia dei porci (aprile 1961), e Márquez deve lasciare New York per sfuggire alle minacce dei profughi cubani. La fede in Castro, e l’amicizia che lega lo scrittore al Líder Máximo, dureranno per sempre. Negli anni Sessanta, quando da Cuba parte il progetto di liberazione di tutti gli sfruttati del Terzo Mondo, ivi compresa l’Africa, e di appoggio incondizionato al Vietnam del Nord. Ma anche oltre, quando il patriarca della rivoluzione adotta metodi sempre più coercitivi contro i nemici interni, gli intellettuali dissidenti. Proprio uno di questi, Heberto Padilla, sarà al centro di un caso che segna la fine dell’idillio dell’intellighenzia occidentale con Cuba.
Premiato nel 1968 per un libro di poesie fortemente critico verso il castrismo (con Márquez che disapprova pubblicamente la scelta dei giurati), Padilla viene incarcerato nel 1971 con l’accusa di attività sovversiva. Per la sua liberazione firmano Mario Vargas Llosa e Jean-Paul Sartre, Alberto Moravia, Octavio Paz, Carlos Fuentes, Susan Sontag, Simone de Beauvoir. García Márquez no. E questo significherà la rottura di antiche amicizie, un nuovo, lungo isolamento. Ma la popolarità del suo capolavoro, Cent’anni di solitudine (1967; in Italia lo traduce Feltrinelli nel 1968), il culto di cui è fatto oggetto da parte dei movimenti studenteschi e delle frange più desideranti della sinistra extraparlamentare che apriva locali intitolandoli Macondo, tutto questo fervore mette un po’ in ombra la sua ostinata ortodossia castrista.
Nel 1973, alla notizia del golpe di Pinochet in Cile, Márquez è di nuovo in prima fila a protestare contro l’opera della Cia in America Latina. Scrittore amatissimo e detestato, Márquez ha fatto scoprire un mondo e un modo di fare letteratura che ha affascinato lettori di ogni età. Come i giurati di Stoccolma che nel 1982 gli assegnano il premio Nobel per la letteratura. E come Bill Clinton, che una volta eletto presidente, toglierà il divieto di ingresso all’autore del «suo romanzo preferito».
Figlio di un Paese, la Colombia, e di un continente, l’America Latina, condannati a subire per una sorta di maledizione geopolitica regimi dittatoriali, politicanti corrotti, spietati padroni locali e rapaci multinazionali, Gabriel García Márquez non poteva non approdare alla fede rivoluzionaria. Una fede che riconosceva come unico líder Fidel Castro e come unica forma possibile di governo quella instaurata a Cuba nel 1959.
In quello stesso anno, Márquez è all’Avana, come giornalista invitato dal governo rivoluzionario per assistere ai processi contro gli uomini della caduta dittatura. Arrivava dal Venezuela, dove lavorava in esilio per giornali dell’opposizione. Subito accetta di diventare corrispondente negli Stati Uniti per Prensa Latina, l’agenzia di stampa creata dal Che per smascherare la propaganda statunitense che condannava l’avvicinamento di Castro all’Unione Sovietica.
Sono i giorni dell’embargo, del fallito attacco alla Baia dei porci (aprile 1961), e Márquez deve lasciare New York per sfuggire alle minacce dei profughi cubani. La fede in Castro, e l’amicizia che lega lo scrittore al Líder Máximo, dureranno per sempre. Negli anni Sessanta, quando da Cuba parte il progetto di liberazione di tutti gli sfruttati del Terzo Mondo, ivi compresa l’Africa, e di appoggio incondizionato al Vietnam del Nord. Ma anche oltre, quando il patriarca della rivoluzione adotta metodi sempre più coercitivi contro i nemici interni, gli intellettuali dissidenti. Proprio uno di questi, Heberto Padilla, sarà al centro di un caso che segna la fine dell’idillio dell’intellighenzia occidentale con Cuba.
Premiato nel 1968 per un libro di poesie fortemente critico verso il castrismo (con Márquez che disapprova pubblicamente la scelta dei giurati), Padilla viene incarcerato nel 1971 con l’accusa di attività sovversiva. Per la sua liberazione firmano Mario Vargas Llosa e Jean-Paul Sartre, Alberto Moravia, Octavio Paz, Carlos Fuentes, Susan Sontag, Simone de Beauvoir. García Márquez no. E questo significherà la rottura di antiche amicizie, un nuovo, lungo isolamento. Ma la popolarità del suo capolavoro, Cent’anni di solitudine (1967; in Italia lo traduce Feltrinelli nel 1968), il culto di cui è fatto oggetto da parte dei movimenti studenteschi e delle frange più desideranti della sinistra extraparlamentare che apriva locali intitolandoli Macondo, tutto questo fervore mette un po’ in ombra la sua ostinata ortodossia castrista.
Nel 1973, alla notizia del golpe di Pinochet in Cile, Márquez è di nuovo in prima fila a protestare contro l’opera della Cia in America Latina. Scrittore amatissimo e detestato, Márquez ha fatto scoprire un mondo e un modo di fare letteratura che ha affascinato lettori di ogni età. Come i giurati di Stoccolma che nel 1982 gli assegnano il premio Nobel per la letteratura. E come Bill Clinton, che una volta eletto presidente, toglierà il divieto di ingresso all’autore del «suo romanzo preferito».
Ranieri Polese