Il Fatto quotidiano, 20 aprile 2014, 13 luglio 2014
Tags : García Márquez politico
Io, la Colombia e Fidel Castro (intervista con Enzo Biagi)
Il Fatto quotidiano, 20 aprile 2014
Intervista a Gabriel García Márquez. Un grande incontro avvenuto nel 1981, l’anno che precedette l’assegnazione del Nobel
Márquez, cos’è la politica?
È il gioco degli scacchi della realtà.
Di cosa ha bisogno la Colombia?
Di un re buono, generoso, giusto, democratico, amoroso. A Bogotá risiede la nostra borghesia più colta e intelligente: è capace di incredibili invenzioni pur di mantenere il comando. La Colombia sta vivendo la crisi che accompagna il passaggio da una situazione feudale a un capitalismo aperto che distribuisce. Tutto ciò che accade è accompagnato da una corruzione che non è seconda neppure a quella messicana, assai notevole, ma almeno loro hanno da prendere, c’è ricchezza. In Colombia, invece, stanno impoverendo ancora i più poveri. Questo purtroppo è nella tradizione del Paese.
Tra guerra civile e colpi di Stato, il processo industriale a che punto è?
Il processo industriale si è fermato, mentre si è sviluppata una economia marginale, basata sull’enorme quantità di denaro che entra con il traffico della droga. Biagi, sono orgoglioso anche di questa attività: non si scandalizzi. La mia è gente che trova sempre un modo per non morire. Certo, il governo ha deciso qualcosa: ha incaricato le forze armate di arginare il traffico, ma è solo di facciata, quelli che sono dentro il palazzo sono stati comprati dai grandi trafficanti. Siamo i primi produttori di droga e coloro che si dedicano a questi affari non hanno problemi, nonostante le leggi, hanno i loro uomini nei posti che contano.
I soldi della droga sono sporchi, come vengono ripuliti?
I grossi trafficanti, per ripulire i guadagni, prima si son dedicati all’edilizia, poi sono passati alle fabbriche. Siamo arrivati a questo: si salvi chi può. Con quello che succede, c’è il rischio della dissoluzione sociale. Chi non ce la fa a sopravvivere, prende il coltello e si butta sulla strada. Questo accade a tutti i livelli dello Stato. Anch’io mi sono dovuto arrangiare scrivendo romanzi, facendo il giornalista, credendo nella rivoluzione, altrimenti avrei dovuto adattarmi. Quanta gente è stata costretta a farlo per non morire.
Cosa pensa del presidente della Colombia Julio Cesar Turbay Ayala?
Non dobbiamo dimenticare che nel passato è stato ministro di un governo militare. A modo suo si è battuto per la democrazia. Quando nel 1978 ha vinto le elezioni il suo programma si basava su tre principi: produzione, sicurezza e occupazione. Con lui è aumentata la guerriglia, sono aumentati i sequestri di persona e il traffico della droga. Fuori dalla Colombia e dall’America Latina è un presidente molto criticato. Oggi i nuovi ricchi, dopo un decennio di intrallazzi sporchi, cercano di diventare signori onorati. In tutte le famiglie c’è qualcuno coinvolto nella droga, nella coca. Hanno pescato anche un cugino del presidente Turbay Ayala. Lui no: è un politico puro, ma appoggiato da altri che non lo sono. Però, guai se si muovesse in completa innocenza, perché non sarebbe ricattabile. In ogni caso io preferisco una democrazia imperfetta a un golpe militare. Se accadesse, mi metto dalla parte di Turbay. Ma non legittimare questo sistema, vuol dire non favorire una insurrezione di generali.
Perché ha deciso di andare a vivere in Messico?
Non sono partito perché c’era un pericolo vero per me, ma per dare un alt. Loro hanno l’esercito, io la penna. Dovevo fare un gesto spettacolare perché capissero che c’è qualcosa che non si deve e non si può toccare. Quando me ne sono andato c’era una minaccia concreta dell’ennesimo colpo di Stato, come oggi, la disperazione è tale che chiunque prometta un paradiso che non esiste si tira dietro la massa. Basterebbe che ci fosse un leader populista, ma questo capo in Colombia non c’è, né a destra né a sinistra. Se fosse di sinistra potrebbe anche essere una buona soluzione, ma la sinistra non esiste. C’è il partito comunista più sovietico del globo, con molti meriti, eroico. Ha sopportato tanti sacrifici, ma obbedisce sempre a Mosca. Sono come i preti.
Che cos’è la sinistra?
L’unica promozione umana possibile.
E la destra?
Tutto il contrario.
Lei è accusato di essere complice del movimento guerrigliero.
Mi accusano di complicità col movimento guerrigliero perché è stato addestrato a Cuba: si sa del mio rapporto con Fidel e difendo la sua opera, perché è comunque una possibilità per l’America latina in un’ottica di guerra, ed è una cosa che quelli di Bogotá non possono accettare. Non sono l’ispiratore degli insorti. Non posso correre il rischio che mi mettano in carcere e per qualche tempo non si sappia nulla di me. Per questo ho chiesto al governo del Messico protezione, e mi sono imbarcato sul primo aereo.
Dice José Arcadio Buendìa di Cent’anni di solitudine, il capostipite della famiglia e il fondatore di Macondo: «Non abbiamo ancora un morto. Non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sottoterra». Questa decisione le pesa molto?
Moltissimo. In Colombia, oltre ai miei cari, ho lasciato le esperienze che contano, i ricordi, la mia ispirazione, il mio passato. I miei sono rimasti laggiù.
Essere lontani che cosa significa?
Mi manca quasi tutto. Se posso ritornare ricomincio. Adesso scrivo le mie memorie, quasi tutti lo fanno quando non ricordano più niente. Sono lucido. Debbo affrettarmi.
La solitudine dei Buendìa, rappresenta la sua, quella dell’esule?
La lontananza mi porta alla nostalgia. Aureliano con la coda di maiale è l’unico Buendìa che in cent’anni è nato per amore. Il segreto della loro solitudine è la mancanza d’amore.
Cos’è per lei la solitudine?
È il contrario della solidarietà.
Si innamora mai?
Tutti i giorni, tutta la vita, ma una sola volta in vita mia.
In un’intervista ha detto che la famiglia Buendìa rappresenta una versione della storia dell’America latina. È così?
Sì, lo penso veramente. La storia dell’America latina è un insieme di popoli che hanno compiuto sforzi imponenti accompagnati da grandi drammi, tutto questo è destinato alla dimenticanza, portato via dall’oblio. In Cent’anni di solitudine l’unico è il colonnello Aureliano Buendìa che, dopo tanti anni, riconosce come vero il massacro dei lavoratori della compagnia bananiera.
Cosa l’ha spinta a scrivere Cent’anni di solitudine?
Biagi, prima le ho detto che io combatto con la penna: ho sentito la volontà di mettere in letteratura le esperienze che mi avevano colpito durante l’infanzia. Ho voluto restituire poeticamente il mondo della mia infanzia. Macondo assomiglia molto al torrido villaggio di Aracataca dove sono nato.
Come si definisce come scrittore?
Se non ho un’immagine nitida nella mia mente non riesco a scrivere un racconto, perciò mi sento un realista puro. La memoria mi dà quasi tutto il materiale per il racconto. A me l’immaginazione serve per arricchire la memoria, per plasmare il racconto. Non esiste una sola riga nei miei libri in cui non ci sia un aggancio con la realtà. I momenti di grande felicità nella vita li ho avuti scrivendo.
Lei ha detto che deve molto a uno autore americano, William Faulkner, che anch’io amo molto, se è diventato uno scrittore.
Quando l’ho letto per la prima volta ho deciso che avrei fatto lo scrittore. Da Faulkner ho imparato come manipolare il materiale che mi arriva dalla memoria ancora informe.
Lei ha raccontato che sua nonna è stata molto importante per la tecnica che usa nei suoi libri.
Da mia nonna ho imparato lo stile da usare nel racconto. Lei era bravissima nel far sembrare vere le cose fantastiche che raccontava, lo faceva in modo molto serio come se fosse la realtà: era molto convincente. Io penso che uno scrittore può raccontare tutto ciò che vuole purché sia in grado di convincere il lettore. Per farlo bisogna scrivere come quando si racconta la verità.
Che cosa la lega a Fidel Castro?
Ciò che più mi impressiona è la sua tenerezza. Dimenticate un momento la politica. La nostra amicizia si fonda quasi esclusivamente sul fatto che l’unica cosa di cui parlo con lui è la letteratura. È uno straordinario lettore. Cuba è una realtà: mi identifico con la rivoluzione cubana. È inspiegabile questa intransigenza verso Cuba.
Ha appena finito un nuovo libro: Cronaca di una morte annunciata.
Come le ho detto la trama è vera, il fatto è accaduto trent’anni fa: l’assassinio terribile di un ragazzo che studiava con me. Un delitto d’onore. Una vicenda drammatica che potrebbe essere riassunta in tre righe.
Ci proviamo?
Va bene. Un uomo si sposa, la sera scopre che la moglie non è vergine e la rimanda dai suoi. La madre della ripudiata chiama i due figli che chiedono alla sorella: chi è stato? Lei fa un nome, loro non vogliono, ma devono ammazzarlo e pregano Dio che succeda qualcosa, che gli permetta di non farlo. Sono le tre del mattino, in un borgo piccolissimo e stanno all’osteria, proprio di fronte all’abitazione del seduttore. Aspettano che esca per accopparlo. Mostrano i coltelli. Tutti sanno quello che sta per avvenire. Così accadde a Roma per Giulio Cesare. Tutti parlavano ma lui non lo sapeva. Uno decide di informare la vittima incosciente con una lettera, la fa passare sotto la porta, ma lui ci cammina sopra e non la vede. Quando appare pensano: è impossibile che non si renda conto di ciò che lo minaccia. Lui esce, perché deve aspettare il vescovo, ma il piroscafo passa ma non si ferma. Il prelato, lontano, saluta. È una citazione che vuol essere un omaggio allo scrittore Henry Graham Greene. Deluso il giovanotto ritorna indietro. E la sua sorte si compie.
Questa storia vuole rappresentare un simbolo.
No, questo intreccio non è un simbolo ma, come diciamo noi sudamericani: «È la puttana vita». Biagi, non mi faccia domande su questo perché forse non conosco la risposta. Approfondisco quello che è rimasto indelebile nella memoria. Immagazzino tante immagini, ma non prendo mai appunti, faccio trascorrere il tempo, molte di queste svaniscono, rimangono solo quelle importanti, quando riaffiorano significa che le devo fare uscire. Quello è il momento in cui comincio a lavorare. Il protagonista del fatto era il figlioccio di mia madre e quelli che lo hanno fatto fuori due brave persone, incapaci di nuocere a chiunque, ma era quasi impossibile sfuggire al pregiudizio. Quando ho detto a mia madre che volevo buttar giù il resoconto di quella disperata avventura, che anche mi riguarda, mi ha pregato: «Non farlo finché sarà viva la mia comare». Il mio compagno era stato pugnalato davanti al cancello, perché la sua mamma temeva uno scandalo, non voleva che accadesse nelle sue stanze o in giardino, e aveva ordinato di sbarrare le porte: è diventata pazza.
È vero che questo libro doveva uscire solo dopo la caduta di Pinochet?
Sì, è vero. Avevo promesso di non pubblicarlo finché Pinochet non fosse caduto, ma se c’è una virtù che manca a tutte le sinistre è il realismo. Però io credo di essere un poeta che questo senso ce l’ha. È certo che Pinochet deve andar giù, ma ancora non so quando, così ho deciso di darlo alle stampe. Io cambio, Pinochet no. Io vivo, lui no.
Lei è religioso?
Sono superstizioso.
Cosa possiamo fare per la Colombia?
Voi europei credete alla concatenazione dei fatti. Noi all’imprevedibilità. Potete volerci bene, questo sarebbe già molto.
Intervista a Gabriel García Márquez. Un grande incontro avvenuto nel 1981, l’anno che precedette l’assegnazione del Nobel
Márquez, cos’è la politica?
È il gioco degli scacchi della realtà.
Di cosa ha bisogno la Colombia?
Di un re buono, generoso, giusto, democratico, amoroso. A Bogotá risiede la nostra borghesia più colta e intelligente: è capace di incredibili invenzioni pur di mantenere il comando. La Colombia sta vivendo la crisi che accompagna il passaggio da una situazione feudale a un capitalismo aperto che distribuisce. Tutto ciò che accade è accompagnato da una corruzione che non è seconda neppure a quella messicana, assai notevole, ma almeno loro hanno da prendere, c’è ricchezza. In Colombia, invece, stanno impoverendo ancora i più poveri. Questo purtroppo è nella tradizione del Paese.
Tra guerra civile e colpi di Stato, il processo industriale a che punto è?
Il processo industriale si è fermato, mentre si è sviluppata una economia marginale, basata sull’enorme quantità di denaro che entra con il traffico della droga. Biagi, sono orgoglioso anche di questa attività: non si scandalizzi. La mia è gente che trova sempre un modo per non morire. Certo, il governo ha deciso qualcosa: ha incaricato le forze armate di arginare il traffico, ma è solo di facciata, quelli che sono dentro il palazzo sono stati comprati dai grandi trafficanti. Siamo i primi produttori di droga e coloro che si dedicano a questi affari non hanno problemi, nonostante le leggi, hanno i loro uomini nei posti che contano.
I soldi della droga sono sporchi, come vengono ripuliti?
I grossi trafficanti, per ripulire i guadagni, prima si son dedicati all’edilizia, poi sono passati alle fabbriche. Siamo arrivati a questo: si salvi chi può. Con quello che succede, c’è il rischio della dissoluzione sociale. Chi non ce la fa a sopravvivere, prende il coltello e si butta sulla strada. Questo accade a tutti i livelli dello Stato. Anch’io mi sono dovuto arrangiare scrivendo romanzi, facendo il giornalista, credendo nella rivoluzione, altrimenti avrei dovuto adattarmi. Quanta gente è stata costretta a farlo per non morire.
Cosa pensa del presidente della Colombia Julio Cesar Turbay Ayala?
Non dobbiamo dimenticare che nel passato è stato ministro di un governo militare. A modo suo si è battuto per la democrazia. Quando nel 1978 ha vinto le elezioni il suo programma si basava su tre principi: produzione, sicurezza e occupazione. Con lui è aumentata la guerriglia, sono aumentati i sequestri di persona e il traffico della droga. Fuori dalla Colombia e dall’America Latina è un presidente molto criticato. Oggi i nuovi ricchi, dopo un decennio di intrallazzi sporchi, cercano di diventare signori onorati. In tutte le famiglie c’è qualcuno coinvolto nella droga, nella coca. Hanno pescato anche un cugino del presidente Turbay Ayala. Lui no: è un politico puro, ma appoggiato da altri che non lo sono. Però, guai se si muovesse in completa innocenza, perché non sarebbe ricattabile. In ogni caso io preferisco una democrazia imperfetta a un golpe militare. Se accadesse, mi metto dalla parte di Turbay. Ma non legittimare questo sistema, vuol dire non favorire una insurrezione di generali.
Perché ha deciso di andare a vivere in Messico?
Non sono partito perché c’era un pericolo vero per me, ma per dare un alt. Loro hanno l’esercito, io la penna. Dovevo fare un gesto spettacolare perché capissero che c’è qualcosa che non si deve e non si può toccare. Quando me ne sono andato c’era una minaccia concreta dell’ennesimo colpo di Stato, come oggi, la disperazione è tale che chiunque prometta un paradiso che non esiste si tira dietro la massa. Basterebbe che ci fosse un leader populista, ma questo capo in Colombia non c’è, né a destra né a sinistra. Se fosse di sinistra potrebbe anche essere una buona soluzione, ma la sinistra non esiste. C’è il partito comunista più sovietico del globo, con molti meriti, eroico. Ha sopportato tanti sacrifici, ma obbedisce sempre a Mosca. Sono come i preti.
Che cos’è la sinistra?
L’unica promozione umana possibile.
E la destra?
Tutto il contrario.
Lei è accusato di essere complice del movimento guerrigliero.
Mi accusano di complicità col movimento guerrigliero perché è stato addestrato a Cuba: si sa del mio rapporto con Fidel e difendo la sua opera, perché è comunque una possibilità per l’America latina in un’ottica di guerra, ed è una cosa che quelli di Bogotá non possono accettare. Non sono l’ispiratore degli insorti. Non posso correre il rischio che mi mettano in carcere e per qualche tempo non si sappia nulla di me. Per questo ho chiesto al governo del Messico protezione, e mi sono imbarcato sul primo aereo.
Dice José Arcadio Buendìa di Cent’anni di solitudine, il capostipite della famiglia e il fondatore di Macondo: «Non abbiamo ancora un morto. Non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sottoterra». Questa decisione le pesa molto?
Moltissimo. In Colombia, oltre ai miei cari, ho lasciato le esperienze che contano, i ricordi, la mia ispirazione, il mio passato. I miei sono rimasti laggiù.
Essere lontani che cosa significa?
Mi manca quasi tutto. Se posso ritornare ricomincio. Adesso scrivo le mie memorie, quasi tutti lo fanno quando non ricordano più niente. Sono lucido. Debbo affrettarmi.
La solitudine dei Buendìa, rappresenta la sua, quella dell’esule?
La lontananza mi porta alla nostalgia. Aureliano con la coda di maiale è l’unico Buendìa che in cent’anni è nato per amore. Il segreto della loro solitudine è la mancanza d’amore.
Cos’è per lei la solitudine?
È il contrario della solidarietà.
Si innamora mai?
Tutti i giorni, tutta la vita, ma una sola volta in vita mia.
In un’intervista ha detto che la famiglia Buendìa rappresenta una versione della storia dell’America latina. È così?
Sì, lo penso veramente. La storia dell’America latina è un insieme di popoli che hanno compiuto sforzi imponenti accompagnati da grandi drammi, tutto questo è destinato alla dimenticanza, portato via dall’oblio. In Cent’anni di solitudine l’unico è il colonnello Aureliano Buendìa che, dopo tanti anni, riconosce come vero il massacro dei lavoratori della compagnia bananiera.
Cosa l’ha spinta a scrivere Cent’anni di solitudine?
Biagi, prima le ho detto che io combatto con la penna: ho sentito la volontà di mettere in letteratura le esperienze che mi avevano colpito durante l’infanzia. Ho voluto restituire poeticamente il mondo della mia infanzia. Macondo assomiglia molto al torrido villaggio di Aracataca dove sono nato.
Come si definisce come scrittore?
Se non ho un’immagine nitida nella mia mente non riesco a scrivere un racconto, perciò mi sento un realista puro. La memoria mi dà quasi tutto il materiale per il racconto. A me l’immaginazione serve per arricchire la memoria, per plasmare il racconto. Non esiste una sola riga nei miei libri in cui non ci sia un aggancio con la realtà. I momenti di grande felicità nella vita li ho avuti scrivendo.
Lei ha detto che deve molto a uno autore americano, William Faulkner, che anch’io amo molto, se è diventato uno scrittore.
Quando l’ho letto per la prima volta ho deciso che avrei fatto lo scrittore. Da Faulkner ho imparato come manipolare il materiale che mi arriva dalla memoria ancora informe.
Lei ha raccontato che sua nonna è stata molto importante per la tecnica che usa nei suoi libri.
Da mia nonna ho imparato lo stile da usare nel racconto. Lei era bravissima nel far sembrare vere le cose fantastiche che raccontava, lo faceva in modo molto serio come se fosse la realtà: era molto convincente. Io penso che uno scrittore può raccontare tutto ciò che vuole purché sia in grado di convincere il lettore. Per farlo bisogna scrivere come quando si racconta la verità.
Che cosa la lega a Fidel Castro?
Ciò che più mi impressiona è la sua tenerezza. Dimenticate un momento la politica. La nostra amicizia si fonda quasi esclusivamente sul fatto che l’unica cosa di cui parlo con lui è la letteratura. È uno straordinario lettore. Cuba è una realtà: mi identifico con la rivoluzione cubana. È inspiegabile questa intransigenza verso Cuba.
Ha appena finito un nuovo libro: Cronaca di una morte annunciata.
Come le ho detto la trama è vera, il fatto è accaduto trent’anni fa: l’assassinio terribile di un ragazzo che studiava con me. Un delitto d’onore. Una vicenda drammatica che potrebbe essere riassunta in tre righe.
Ci proviamo?
Va bene. Un uomo si sposa, la sera scopre che la moglie non è vergine e la rimanda dai suoi. La madre della ripudiata chiama i due figli che chiedono alla sorella: chi è stato? Lei fa un nome, loro non vogliono, ma devono ammazzarlo e pregano Dio che succeda qualcosa, che gli permetta di non farlo. Sono le tre del mattino, in un borgo piccolissimo e stanno all’osteria, proprio di fronte all’abitazione del seduttore. Aspettano che esca per accopparlo. Mostrano i coltelli. Tutti sanno quello che sta per avvenire. Così accadde a Roma per Giulio Cesare. Tutti parlavano ma lui non lo sapeva. Uno decide di informare la vittima incosciente con una lettera, la fa passare sotto la porta, ma lui ci cammina sopra e non la vede. Quando appare pensano: è impossibile che non si renda conto di ciò che lo minaccia. Lui esce, perché deve aspettare il vescovo, ma il piroscafo passa ma non si ferma. Il prelato, lontano, saluta. È una citazione che vuol essere un omaggio allo scrittore Henry Graham Greene. Deluso il giovanotto ritorna indietro. E la sua sorte si compie.
Questa storia vuole rappresentare un simbolo.
No, questo intreccio non è un simbolo ma, come diciamo noi sudamericani: «È la puttana vita». Biagi, non mi faccia domande su questo perché forse non conosco la risposta. Approfondisco quello che è rimasto indelebile nella memoria. Immagazzino tante immagini, ma non prendo mai appunti, faccio trascorrere il tempo, molte di queste svaniscono, rimangono solo quelle importanti, quando riaffiorano significa che le devo fare uscire. Quello è il momento in cui comincio a lavorare. Il protagonista del fatto era il figlioccio di mia madre e quelli che lo hanno fatto fuori due brave persone, incapaci di nuocere a chiunque, ma era quasi impossibile sfuggire al pregiudizio. Quando ho detto a mia madre che volevo buttar giù il resoconto di quella disperata avventura, che anche mi riguarda, mi ha pregato: «Non farlo finché sarà viva la mia comare». Il mio compagno era stato pugnalato davanti al cancello, perché la sua mamma temeva uno scandalo, non voleva che accadesse nelle sue stanze o in giardino, e aveva ordinato di sbarrare le porte: è diventata pazza.
È vero che questo libro doveva uscire solo dopo la caduta di Pinochet?
Sì, è vero. Avevo promesso di non pubblicarlo finché Pinochet non fosse caduto, ma se c’è una virtù che manca a tutte le sinistre è il realismo. Però io credo di essere un poeta che questo senso ce l’ha. È certo che Pinochet deve andar giù, ma ancora non so quando, così ho deciso di darlo alle stampe. Io cambio, Pinochet no. Io vivo, lui no.
Lei è religioso?
Sono superstizioso.
Cosa possiamo fare per la Colombia?
Voi europei credete alla concatenazione dei fatti. Noi all’imprevedibilità. Potete volerci bene, questo sarebbe già molto.
Enzo Biagi