La Stampa, 29 gennaio 2006, 13 luglio 2014
Tags : Gabriel García Márquez
A casa di Gabo
La Stampa, 29 gennaio 2006
Gabriel García Márquez vive a Città del Messico, Pedregal de San Angel, quartiere residenziale edificato sulla roccia vulcanica dove abitano star del cinema, ex presidenti, banchieri. La moglie si chiama Mercedes Barcha. Vivono qui dal 1975, quando lasciarono la Spagna. Nell’appartamento le foto di cinque nipotini che hanno da 7 a 18 anni e «un computer di ultima generazione con tutti gli accessori multimedia. Da decenni non usa più la sua leggendaria macchina da scrivere». Si arriva allo studio attraversando un magnifico giardino pieno di «fiori e orchidee».
«Povero Avedon, venne qui, mi fece un ritratto e quindici giorni dopo era morto. Non ho mai visto la foto».
«Quando scrivevo a macchina facevo in media un libro ogni sette anni. Grazie al computer la media è salita a tre perché lo faccio lavorare al mio posto. Ho esattamente le stesse apparecchiature qui, a Bogotà e a Barcellona, e mi porto dietro soltanto un dischetto».
Il biografo ufficiale di Gabriel García Márquez è l’americano Gerald Martin.
«Nel 2005 mi sono preso un anno sabbatico. Non ho scritto una riga e al momento non ho né un progetto né la prospettiva di averne uno. È la prima volta in vita mia, finora non avevo mai smesso di scrivere. Ogni giorno lavoravo dalle nove alle tre del pomeriggio. Dicevo di farlo per mantenere il braccio allenato ma la verità è che non sapevo cosa fare il mattino».
«Adesso ho scoperto un’attività fantastica: rimango a leggere a letto! Leggo tutti quei libri che non ho avuto mai il temnpo di leggere... Prima, se per qualche notivo non mi riusciva di scrivere, mi angosciavo. Dovevo inventare qualcosa per distrarmi, per continuare a vivere fino alle tre. Adesso non scrivere è diventato un piacere».
«L’anno sabbatico è finito, ma sto trovando delle scuse per prorogarlo a tutto il 2006. Adesso che ho scoperto che posso leggere senza scrivere chissà quanto andrò avanti. Con tutto quello che ho scritto me lo sono guadagnato, vero? Ma se domani mi venisse un’idea per un romanzo sarebbe meraviglioso. Ho tanta pratica del mestiere che volendo ne potrei scrivere uno senza problemi. Se mi piazzo di fronte al computer ci riesco... ma se non ci metto il cuore i lettori se ne accorgono. Lascio accese lì dietro tutte le mie macchine informatiche, pronte per entrare in azione quando mi verrà in mente qualcosa. Sarei molto felice se trovassi un tema per un romanzo, ma non ho bisogno di sedermi e inventarne uno. La gente deve sapere che se pubblicherò ancora qualcosa, sarà perché ne valeva la pena».
Memoria delle mie puttane tristi, l’ultimo romanzo breve di Gabo, apparteneva a una serie di cinque racconti sulle case chiuse. Lo scrittore scartò i primi quattro che non gli piacevano e pubblicò solo il quinto che gli sembrava convincente.
A casa di Gabo c’è una piccola saletta cinematografica. «Non riesco ad andare al cinema come una persona normale, senza dover firmare autografi per ore e ore. Quindi i registi mi spediscono i film o mi invitano ad assistere alle proiezioni private».
Il figlio di Gabo, Rodrigo, abita a Hollywood e fa il regista cinematografico e lo si incontra facilmente a Cannes, Locarno o San Sebastian. Ha anche diretto alcune puntate de I Soprano e di Six feet under. Gabo ha un altro figlio, Gonzalo, che sta a Parigi e fa il pittore. Giudizio su Rodrigo: «Meno male che fa film eccellenti, altrimenti sarebbe stato terribile». Gonzalo: «A Gabo non piaceva giocare con noi, preferiva dialogare, condividere con noi temi da adulti. Con lui parlavamo molto e ascoltavamo musica».
«Siamo arrivati a Barcellona nel 1967 portando con noi una pelle di caimano lunga due metri, regalataci da un amico. Io ero pronto a venderla perché avevamo bisogno di soldi, ma ci pensai due volte e alla fine ce la siamo tenuta. Ha viaggiato con noi per mezzo mondo, fa le veci di portafortunma. Tutto avvenne rapidamente. Mentre ero a Barcellona sono passato da non avere da mangiare (prima ancora, a Parigi, avevo persino chiesto l’elemosina nella metropolitana) a poter acquistare varie case».
L’agente letterario di Gabo è Carmen Balcells, la più famosa del mondo. Sta con Gabo dal 1961 e fu lei a imporre Cent’anni di solitudine.
«A Barcellona (raggiunta poer suggerimento di Ramón Vinyes, poi divenuto un personaggio dei Cent’anni) c’era una sorta di fermento clandestino. Andavamo in Francia per vedere i film. Ultimo tango a Parigi l’abbiamo scoperto a Perpignan. A volte rimanevamo tre giorni di fila a Parigi per fare il pieno di novità. Barcellona era la porta verso l’Europa. Da lì prendevamo il volo per Londra, dove abbiamo imparato l’inglese, o per Milano. Andavano ai concerti, alle prime teatrali, ho potuto saziare la mia serte di cultura».
Gabo venne via da Barcellona alla morte di Franco, temendo che in Spagna non avrebbero capito il suo libro L’autunno del patriarca «Quando morì Franco eravamo a Bogotà, ma decidemmo di tornare in Messico. Avevo paura di non riuscire a convincere la censura che per costruire la figura del protagonista de L’autunno del patriarca mi ero ispirato ad alcuni dittatori latinoaemericani, come il venezuelano Juan Vuicente Gómez, l’haitiano Duvalier, Papà Doc, che aveva ordinato di uccidere tutti i cani neri convinto che un suo nemico si fosse trasformato in uno di loro o Maximiliano Hernández Martines, l’uomo forte di El Salvador, uno che per combattere l’epidemia di morbillo fece foderare in carta rossa tutti i lampioni della città».
«Di fronte alle figure che mi portavo nella testa e nell’anima, Franco mi sembrava un dittatore fin troppo moderno e civile. Non è un caso se il giudizio più acuto su questo romanzo (L’autunno del patriarca) l’ha pronunciato il presidente del Panama Omar Torrijos. Due giorni prima di morire mi disse: “E’ il tuo miglior libro, siamo tutti così, proprio come dici tu”».
Gabo continua a sfuggire alla notorietà convinto che la discrezione abbia molta più efficacia, anche in politica. Non ha rotto con Fidel Castro, pur avendo preso «in silenzio» le distanze dalle impostazioni dogmatiche. Il suo intervento personale ha avuto un peso decisivo nella liberazione di alcuni prigionieri politici nonché nel ripensamento di certe posizioni dottrinarie.
«Nel Salvador è intervenuto per ottenere il rilascio di un banchiere che era stato sequestrato. In un altro paese si è fatto garante affinché il governo consentisse l’espatrio delle famiglie dei dissidenti».
«Nel 1995 i rapitori di Juan Carlos Gaviria pretendevano che Gabo assumesse la presidenza della Colombia (la sua risposta è stata: “Nessuno si sogni che io mi accollerò l’irresponsabilità di diventare il peggior presidente della Colombia (...) rilasciate Gaviria, toglietevi i passamontagna e provate a promuovere le vostre idee di rinnovamento all’interno dell’ordine costituzionale”)».
Gabriel García Márquez sulla Colombia (fa il mediatore tra il presidente Uribe e i guerriglieri dell’Eln). «La violenza in Colombia è sempre esistita. Il problema di fondo è l’estrema polarizzazione fra i molto ricchi e i molto poveri. Il business della droga frutta montagne di soldi. Il giorno che finirà le cose miglioreranno perché tutta questa ricchezza non ha fatto che esacerbare i conflitti. I grandi produttori di droga del mondo sono in Colombia. Adesso non litigano più come prima per il controllo della politica. Vogliono il controllo della droga. Gli Stati Uniti sono dentro fino al collo in questo».
«Devo avere una specie di agorafobia, come la Nobel austriaca Elfriede Jelinek. Chiacchiero volentieri a tu per tu, ma inorridisco all’idea di dover affrontare una platea. La mia timidezza? Adesso vado meglio solo perché ho un vantaggio: sono gli altri ad arrivare da me intimiditi».
Gabriel García Márquez vive a Città del Messico, Pedregal de San Angel, quartiere residenziale edificato sulla roccia vulcanica dove abitano star del cinema, ex presidenti, banchieri. La moglie si chiama Mercedes Barcha. Vivono qui dal 1975, quando lasciarono la Spagna. Nell’appartamento le foto di cinque nipotini che hanno da 7 a 18 anni e «un computer di ultima generazione con tutti gli accessori multimedia. Da decenni non usa più la sua leggendaria macchina da scrivere». Si arriva allo studio attraversando un magnifico giardino pieno di «fiori e orchidee».
«Povero Avedon, venne qui, mi fece un ritratto e quindici giorni dopo era morto. Non ho mai visto la foto».
«Quando scrivevo a macchina facevo in media un libro ogni sette anni. Grazie al computer la media è salita a tre perché lo faccio lavorare al mio posto. Ho esattamente le stesse apparecchiature qui, a Bogotà e a Barcellona, e mi porto dietro soltanto un dischetto».
Il biografo ufficiale di Gabriel García Márquez è l’americano Gerald Martin.
«Nel 2005 mi sono preso un anno sabbatico. Non ho scritto una riga e al momento non ho né un progetto né la prospettiva di averne uno. È la prima volta in vita mia, finora non avevo mai smesso di scrivere. Ogni giorno lavoravo dalle nove alle tre del pomeriggio. Dicevo di farlo per mantenere il braccio allenato ma la verità è che non sapevo cosa fare il mattino».
«Adesso ho scoperto un’attività fantastica: rimango a leggere a letto! Leggo tutti quei libri che non ho avuto mai il temnpo di leggere... Prima, se per qualche notivo non mi riusciva di scrivere, mi angosciavo. Dovevo inventare qualcosa per distrarmi, per continuare a vivere fino alle tre. Adesso non scrivere è diventato un piacere».
«L’anno sabbatico è finito, ma sto trovando delle scuse per prorogarlo a tutto il 2006. Adesso che ho scoperto che posso leggere senza scrivere chissà quanto andrò avanti. Con tutto quello che ho scritto me lo sono guadagnato, vero? Ma se domani mi venisse un’idea per un romanzo sarebbe meraviglioso. Ho tanta pratica del mestiere che volendo ne potrei scrivere uno senza problemi. Se mi piazzo di fronte al computer ci riesco... ma se non ci metto il cuore i lettori se ne accorgono. Lascio accese lì dietro tutte le mie macchine informatiche, pronte per entrare in azione quando mi verrà in mente qualcosa. Sarei molto felice se trovassi un tema per un romanzo, ma non ho bisogno di sedermi e inventarne uno. La gente deve sapere che se pubblicherò ancora qualcosa, sarà perché ne valeva la pena».
Memoria delle mie puttane tristi, l’ultimo romanzo breve di Gabo, apparteneva a una serie di cinque racconti sulle case chiuse. Lo scrittore scartò i primi quattro che non gli piacevano e pubblicò solo il quinto che gli sembrava convincente.
A casa di Gabo c’è una piccola saletta cinematografica. «Non riesco ad andare al cinema come una persona normale, senza dover firmare autografi per ore e ore. Quindi i registi mi spediscono i film o mi invitano ad assistere alle proiezioni private».
Il figlio di Gabo, Rodrigo, abita a Hollywood e fa il regista cinematografico e lo si incontra facilmente a Cannes, Locarno o San Sebastian. Ha anche diretto alcune puntate de I Soprano e di Six feet under. Gabo ha un altro figlio, Gonzalo, che sta a Parigi e fa il pittore. Giudizio su Rodrigo: «Meno male che fa film eccellenti, altrimenti sarebbe stato terribile». Gonzalo: «A Gabo non piaceva giocare con noi, preferiva dialogare, condividere con noi temi da adulti. Con lui parlavamo molto e ascoltavamo musica».
«Siamo arrivati a Barcellona nel 1967 portando con noi una pelle di caimano lunga due metri, regalataci da un amico. Io ero pronto a venderla perché avevamo bisogno di soldi, ma ci pensai due volte e alla fine ce la siamo tenuta. Ha viaggiato con noi per mezzo mondo, fa le veci di portafortunma. Tutto avvenne rapidamente. Mentre ero a Barcellona sono passato da non avere da mangiare (prima ancora, a Parigi, avevo persino chiesto l’elemosina nella metropolitana) a poter acquistare varie case».
L’agente letterario di Gabo è Carmen Balcells, la più famosa del mondo. Sta con Gabo dal 1961 e fu lei a imporre Cent’anni di solitudine.
«A Barcellona (raggiunta poer suggerimento di Ramón Vinyes, poi divenuto un personaggio dei Cent’anni) c’era una sorta di fermento clandestino. Andavamo in Francia per vedere i film. Ultimo tango a Parigi l’abbiamo scoperto a Perpignan. A volte rimanevamo tre giorni di fila a Parigi per fare il pieno di novità. Barcellona era la porta verso l’Europa. Da lì prendevamo il volo per Londra, dove abbiamo imparato l’inglese, o per Milano. Andavano ai concerti, alle prime teatrali, ho potuto saziare la mia serte di cultura».
Gabo venne via da Barcellona alla morte di Franco, temendo che in Spagna non avrebbero capito il suo libro L’autunno del patriarca «Quando morì Franco eravamo a Bogotà, ma decidemmo di tornare in Messico. Avevo paura di non riuscire a convincere la censura che per costruire la figura del protagonista de L’autunno del patriarca mi ero ispirato ad alcuni dittatori latinoaemericani, come il venezuelano Juan Vuicente Gómez, l’haitiano Duvalier, Papà Doc, che aveva ordinato di uccidere tutti i cani neri convinto che un suo nemico si fosse trasformato in uno di loro o Maximiliano Hernández Martines, l’uomo forte di El Salvador, uno che per combattere l’epidemia di morbillo fece foderare in carta rossa tutti i lampioni della città».
«Di fronte alle figure che mi portavo nella testa e nell’anima, Franco mi sembrava un dittatore fin troppo moderno e civile. Non è un caso se il giudizio più acuto su questo romanzo (L’autunno del patriarca) l’ha pronunciato il presidente del Panama Omar Torrijos. Due giorni prima di morire mi disse: “E’ il tuo miglior libro, siamo tutti così, proprio come dici tu”».
Gabo continua a sfuggire alla notorietà convinto che la discrezione abbia molta più efficacia, anche in politica. Non ha rotto con Fidel Castro, pur avendo preso «in silenzio» le distanze dalle impostazioni dogmatiche. Il suo intervento personale ha avuto un peso decisivo nella liberazione di alcuni prigionieri politici nonché nel ripensamento di certe posizioni dottrinarie.
«Nel Salvador è intervenuto per ottenere il rilascio di un banchiere che era stato sequestrato. In un altro paese si è fatto garante affinché il governo consentisse l’espatrio delle famiglie dei dissidenti».
«Nel 1995 i rapitori di Juan Carlos Gaviria pretendevano che Gabo assumesse la presidenza della Colombia (la sua risposta è stata: “Nessuno si sogni che io mi accollerò l’irresponsabilità di diventare il peggior presidente della Colombia (...) rilasciate Gaviria, toglietevi i passamontagna e provate a promuovere le vostre idee di rinnovamento all’interno dell’ordine costituzionale”)».
Gabriel García Márquez sulla Colombia (fa il mediatore tra il presidente Uribe e i guerriglieri dell’Eln). «La violenza in Colombia è sempre esistita. Il problema di fondo è l’estrema polarizzazione fra i molto ricchi e i molto poveri. Il business della droga frutta montagne di soldi. Il giorno che finirà le cose miglioreranno perché tutta questa ricchezza non ha fatto che esacerbare i conflitti. I grandi produttori di droga del mondo sono in Colombia. Adesso non litigano più come prima per il controllo della politica. Vogliono il controllo della droga. Gli Stati Uniti sono dentro fino al collo in questo».
«Devo avere una specie di agorafobia, come la Nobel austriaca Elfriede Jelinek. Chiacchiero volentieri a tu per tu, ma inorridisco all’idea di dover affrontare una platea. La mia timidezza? Adesso vado meglio solo perché ho un vantaggio: sono gli altri ad arrivare da me intimiditi».
Xavi Ayén