13 luglio 2014
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Augusto Pinochet
PINOCHET Augusto Valparaiso (Cile) 26 novembre 1915, Santiago (Cile) 10 dicembre 2006. Generale. Politico. Dittatore. L’11 settembre 1973 rovesciò il governo di Unitad Popolar di Salvador Allende con un colpo di Stato militare instaurando una rigida dittatura. Nel dicembre 1974 la giunta militare gli conferì il titolo di presidente della Repubblica. Nel 1980 si fece consacrare presidente della Repubblica fino al 1997 da un plebiscito farsa. Salvatosi da un attentato in cui persero la vita cinque membri della sua scorta (settembre 1986), si rese conto della crisi del suo regime e nel gennaio 1987 revocò lo Stato d’assedio consentendo il rimpatrio di numerosi esuli politici. Nel 1988 fu sconfitto nel referendum con il quale chiedeva il prolungamento del mandato presidenziale • «[...] la sua formazione era stata impostata al conservatorismo religioso e all’educazione militare. A 18 anni è già in accademia, a 25 nella scuola militare. Una biografia che non rivela particolari capacità di leadership. Forse è anche per questo che quando Salvador Allende lo nomina comandante dell’Esercito, appena 18 giorni prima del golpe, immagina di tamponare con una figura grigia le tendenze più estreme delle forze armate. Poi, per non essere scavalcato, Pinochet accetta di guidare l’assalto finale alla Moneda. Nei primi mesi del governo militare, i più tragici, il generale scala il potere dentro le forze armate e chiude i giochi nella junta. Nel dicembre del 1974 il golpe è istituzionalizzato con la sua nomina a presidente della Repubblica, carica riconfermata nel 1981 per altri otto anni. Pinochet ordina il ribaltamento delle politiche economiche e sociali del governo di Unidad Popular. Nella furia restauratrice, i militari chiamano un gruppo di giovani freschi di studi, che si ispiravano alle dottrine di Milton Friedman. Il Cile diventa il laboratorio delle idee dei cosiddetti Chicago boys. Fatte le debite differenze, è un laboratorio alla Mengele, dove esiste la rara possibilità di non preoccuparsi per gli effetti sulle cavie. Senza partiti, sindacati e autorità di controllo, le misure teoriche vengono applicate integralmente. Dopo aver riscritto la Costituzione, il generale è convinto di poter superare la prova delle urne. Ma i cileni lo bocciano. Nel 1989 eleggono Patricio Aylwin come presidente. Pinochet si ritaglia intanto un’amnistia per sé e i militari e resta alla guida dell’esercito, oltre che senatore a vita. Per tutti gli anni 90 il Cile è una democrazia zoppa e Pinochet lavora tranquillo al suo posto nella Storia. Poi, durante un viaggio all’estero, avviene l’impensabile. A Londra nell’ottobre ’98 Pinochet è arrestato per ordine del giudice spagnolo Baltasar Garzón. Il governo britannico lo rimanda in Cile un anno e mezzo dopo, alla fine di una lunga querelle che tocca aspetti inediti del diritto internazionale. La vicenda fa saltare il tappo dell’impunità anche in Cile. I giudici di Santiago avviano una raffica di procedimenti, riescono a far perdere a Pinochet l’immunità di senatore a vita, più volte lo arrestano (a domicilio), lo interrogano. I milioni di dollari intestati a Pinochet in banche americane, probabilmente frutto di mazzette quando era al potere, hanno poi chiuso definitivamente la questione del giudizio storico» (Rocco Cotroneo, Corriere della Sera. 11/12/2006) • «[...] Uno si vede sempre come un angelo, ma riflettendo e meditando: sono buono, sono un uomo in cui non alberga odio o risentimento, provo bontà, sono sempre disposto a fare qualcosa per gli altri. [...] Tutto fu fatto ponderando le cose nell´insieme, si lavorava in base a studi sulle diverse questioni. Se lo studio dava risultati buoni, voleva dire che andava bene. Le cose miglioravano, nessuno si oppose; ora, con altri governi, tutti sono d´accordo che il modello economico debba essere l´economia sociale di mercato; le danno altri nomi per giustificarla, ma fanno le stesse cose. [...] In ogni lotta politica si verificano degli eccessi e c´è gente che non si controlla, cosicché probabilmente ci fu gente che non controllammo, subalterni che agirono e che poi stettero zitti. [...] Chiedere perdono? Per cosa? Per cosa dovrei chiedere perdono? Ma se tentarono di assassinarmi nella Gola di Maipo, mi attaccarono da tutte le parti, morirono cinque guardie. Vi siete scordati tutte le bombe che mi misero? Perdono per cosa? Perché ci avrebbero trasformato in un´altra Cuba? Perdono, dovrebbero chiederlo loro a me, loro, l´altra parte, i marxisti, comunisti. [...] L´esercito cileno era informato, sapevamo molte cose, siamo dei politici, ma quella non è stata difesa politica, bensì difesa della sovranità del Cile. [...] C´è chi muore difendendosi, se mi sparano devo sparare, abbiamo sempre rispettato la vita. Stavano attaccando la patria, c´erano assalti, guerriglieri, gente che uccideva per uccidere, bisognava difendersi. C´erano bombe che uccidevano degli innocenti [...]» (la Repubblica, 26/11/2003) • «Se potesse dare un’occhiata alla carta politica dell’America Latina negli anni ’70, il lettore constaterebbe che i regimi erano quasi tutti autoritari e che i generali, anche quando non esercitavano direttamente il potere, lo sorvegliavano dalle caserme e non perdevano occasione per richiamare all’ordine i governi. Ma Augusto Ugarte y Pinochet, presidente del Cile dal 1973, divenne immediatamente per la maggior parte delle democrazie occidentali il peggiore dei tiranni, il simbolo della reazione, l’uomo più detestabile dell’emisfero meridionale. L’atto d’accusa era lungo. Aveva ucciso una promettente democrazia. Era direttamente o indirettamente responsabile della morte di un presidente socialdemocratico, amato e ammirato dall’opinione progressista europea. Aveva brutalmente perseguitato i suoi oppositori. Aveva trescato con i servizi segreti degli Stati Uniti. Aveva creato con i suoi colleghi della regione una spietata organizzazione poliziesca che inseguiva e colpiva, anche al di fuori delle Americhe, i militanti della democrazia latino- americana. E aveva sfruttato il potere per accumulare all’estero una considerevole fortuna. Quando cadde nella rete di un giudice spagnolo, durante un viaggio a Londra, un ministro laburista ricordò di avere sfilato per le vie della sua città nel 1973 contro i responsabili del golpe cileno. Ed è probabile che i suoi ricordi abbiano avuto una certa influenza sul modo in cui il governo britannico cercò di assecondare per qualche settimana la politica giudiziaria del magistrato Garzón. Fra un tiranno vivo e un tiranno morto corre tuttavia una fondamentale differenza. Il vivo va criticato e combattuto. Il morto deve essere collocato nel suo contesto storico e, nei limiti del possibile, spiegato. Occorre ricordare anzitutto che per più di vent’anni, dopo la rivoluzione castrista del 1959 e lo sbarco degli esuli cubani nella Baia dei Porci, l’America Latina oscillò continuamente fra avventure populiste, colpi di Stato militari, tentativi rivoluzionari, guerriglia urbana. Mentre le sinistre denunciavano i putsch e i golpe della destra, i moderati dell’Occidente contemplavano con preoccupazione la spedizione rivoluzionaria del Che in Bolivia, le operazioni dei montoneros in Argentina e dei tupamaros in Uruguay, i maoisti di Sendero Luminoso in Perù: un cocktail rivoluzionario composto da un po’ di marxismo, una dose non piccola di vecchio anarchismo spagnolo e molto comunismo cinese, vale a dire la speranza che la rivoluzione, dopo quanto era accaduto a Cuba, potesse scoppiare anche là dove l’economia aveva caratteri prevalentemente agricoli e il proletariato era contadino. Chi ebbe l’occasione di visitare l’America Latina in quegli anni ricorda le postazioni di mitragliatrici sui tetti degli aeroporti e la presenza ossessiva di uomini armati in qualsiasi cerimonia ufficiale. In questo panorama di regimi traballanti, continuamente in bilico fra rivoluzione e reazione, esisteva un caso a parte. Nella seconda metà degli anni Sessanta il Cile era il Paese prediletto dalle democrazie cristiane dell’Occidente, il regime politico in cui Eduardo Frei, eletto alla presidenza nel settembre 1964, avrebbe dimostrato che la via europea alla democrazia era possibile. L’elezione di Salvador Allende suscitò qualche preoccupazione per la forte presenza di gruppi massimalisti nella sua maggioranza, ma era pur sempre un evento democratico. La situazione cominciò a peggiorare quando fu chiaro che Allende era un uomo probo, stimabile, animato dalle migliori intenzioni, ma troppo debole per controllare i suoi alleati più radicali e per resistere alle loro pressioni. Il golpe fu opera di Pinochet e di una conventicola di militari, sostenuti in una forma o nell’altra dal governo degli Stati Uniti. Ma Allende non sarebbe caduto così rapidamente se il putsch delle forze armate non fosse stato preceduto dalle clamorose proteste dei ceti sociali e delle categorie professionali (i camionisti ad esempio) che erano scesi in piazza per protestare contro una politica economica visibilmente sbagliata e una inflazione galoppante. Dopo la conquista del potere Pinochet si comportò come Franco dopo la fine della guerra civile spagnola. Anziché proporsi la riconciliazione nazionale, fece perseguitare, imprigionare, torturare ed eliminare migliaia di dissenzienti. Tutti i governi democratici europei deplorarono gli avvenimenti cileni e alcuni di essi richiamarono in patria gli ambasciatori. Ma molti, fra cui probabilmente la Santa Sede, tirarono un sospiro di sollievo. Comincia da quel momento la lunga stagione dell’ambiguità. Il regime era autoritario e repressivo, ma chiedeva consigli, per la riforma del suo sistema pensionistico, a Milton Friedman, vale a dire all’astro nascente del monetarismo liberale, e lanciava evidenti segnali di progresso economico. Quando scoppiò la guerra delle Falkland, Pinochet, anziché schierarsi con i colleghi argentini, sostenne la Gran Bretagna: un gesto che gli assicurò da quel momento la stima e la riconoscenza di Margaret Thatcher. Ripercorrendo le tappe della sua vicenda londinese, i cronisti ricorderanno che qualche giorno prima del suo arresto il generale aveva preso il tè con la Lady di Ferro. Fra tanti vizi e manifestazioni di spietata durezza, il regime di Pinochet ebbe il merito di organizzare, sia pure con qualche riluttanza, la sua uscita di scena. La costituzione del 1981 confermò il generale per sette anni alla presidenza della Repubblica, ma stabilì che il rinnovo del suo mandato sarebbe stato sottoposto a un referendum popolare. E il popolo, quando poté votare, lo congedò con il 56% di no. Se nel 1998, dieci anni dopo, non fosse andato a Londra per un intervento chirurgico, il corso della storia cilena sarebbe stato forse diverso. Ma il suo ritorno in patria, dopo le disavventure londinesi, e le tortuose peripezie giudiziarie di questi ultimi anni, dimostra che Pinochet continuò a essere sino alla fine, per i democratici del suo Paese, un caso delicato da maneggiare con molta cautela. Chiusa la bara, tutto forse diventerà più semplice. Ma toccherà ai cileni, non a noi, scrivere l’ultimo capitolo di questa storia latino-americana» (Sergio Romano, Corriere della Sera, 13/12/2006) • «[...] Nella sua biografia non c’è un solo tratto che attenui l´impressione d´una mediocrità tronfia e furba. In questo somiglia ad un altro sterminatore di successo, Franco, per il quale non a caso Pinochet nutriva una stima sconfinata. Entrambi generali, entrambi dichiaratamente cattolici, entrambi diffidenti verso l´ideologia (ragione per la quale tecnicamente non è corretto classificarli nella casella dei fascismi). Entrambi, infine, per natura traditori. Ma il cileno con una sistematicità assoluta. Tradì innanzitutto Allende, che l´aveva nominato capo di Stato maggiore. E avrebbe tradito anche gli altri congiurati se il golpe fosse stato abortito. Fu l´ultimo generale a entrare nella cospirazione, e dopo non poche esitazioni. La mattina della sollevazione - mi raccontò Victor Pei, un formidabile anarchico spagnolo che nel 1973 era il segretario di Allende - si unì agli altri generali con due ore di ritardo: voleva essere sicuro che il colpo di Stato fosse riuscito. In quelle ore tentò, attraverso un suo emissario, di convincere Allende a salire con la famiglia su un aereo che li avrebbe condotti in salvo; e allo stesso tempo annunciò ai complici che l´aereo sarebbe esploso in volo, con Allende, i figli e i nipotini. Nei mesi successivi tradì, emarginandoli, i generali con i quali aveva formato la giunta militare. E continuò a tradire con successo anche dopo la fine della dittatura, quando tentò di addossare l´intera responsabilità del massacro sul capo della sua polizia segreta, Contreras. Pinochet non sapeva, ripetevano la moglie e i figli ogni volta che un giornalista straniero li interpellava sulla strage seguita al golpe. Alla fine degli anni Novanta pareva ormai riuscito a rimodellare il passato. Imposto un oblio coatto sulla strage, di cui in Cile non si poteva neppure parlare, s´era messo in testa di entrare nella storia dalla porta principale. I suoi più efficaci testimonial furono i Chicago boys, gli economisti americani che avevano avviato il Cile a diventare l´allievo prediletto del Fondo monetario. Il più rappresentativo, Milton Friedman, era sbarcato a Santiago col nome d´un cattedratico cileno sparito nel nulla e il proposito di conoscerne la sorte. Chiese ai militari che ne fosse stato, ricevette risposte evasive, preferì non insistere, dimenticò. Da allora la collaborazione tra i Chicago boys e Pinochet è tra le più vistose conferme che solo per un pernicioso equivoco i termini "liberista" e "liberale" sono unificati nella lingua spagnola sotto l´ambigua dizione "neo-liberal". Convinto d´essere una figura eminente del Novecento, Pinochet cominciò a misurarsi con le grandi personalità del secolo. Scrisse memorie in cui si paragona implicitamente ad un condottiero dell´Antica Roma. Quando passava per Londra non tralasciava di visitare il Museo delle Cere, dove, raccontò egli stesso, s´era fermato davanti alla statua di Lenin per sbeffeggiare il russo: ”Voi siete caduto, siete caduto”, gli aveva ripetuto, volendo intendere ”voi siete nelle polvere, io su un piedistallo”. Ma sarebbe caduto anche Pinochet. Quando il governo Blair lo arrestò a Londra per crimini contro l´umanità, la storia del Cile cambiò in modo definitivo. Sono stato testimone dell´evento che separò il vecchio Cile dal nuovo, la votazione nella Camera dei Lord che confermò l´arresto dell´ex dittatore. Quel pomeriggio mi trovavo nell´elegante palazzina della Fondazione Pinochet, dove tutto il pinochetismo s´era radunato per assistere alla diretta della votazione londinese trasmessa da un maxischermo. Quando fu chiaro che il Nonno aveva perso la partita, la distinta folla trasmutò in masnada. Scoppiò una bolgia di ululati, muggiti, singhiozzi, abbracci bagnati. Poi un urlo roco, ”Figli di puttana!”, e tutto quel consesso di signore leopardate e distinti generali, di giovani incravattati e madonnine lacrimanti, subì una trasformazione repentina, perse la testa, agitò i pugni, invocò la guerra, i plotoni d´esecuzione, il golpe, i carri armati: tirò fuori l´anima vera. Cori sempre più striduli maledissero gli inglesi, gli spagnoli, gli europei, il mondo intero: tutti ”comunisti, froci, figli di puttana”. Si gridava: ”Dovevamo ammazzarli tutti, i comunisti, ecco dove abbiamo sbagliato!”. ”All´ambasciata inglese!”, ”A lottare nelle strade”, ”Guerra, guerra, qui comincia la guerra!”, ”Fuori le baionette!”. La grande mandria imbizzarrita mosse muggendo verso la strada, gli spazi aperti, più propizi a sfogare gli istinti naturali. Biondone ossigenate frustavano i cameramen con le bandierine cilene che poco prima, in uno sventolio euforico, anticipavano l´evento dato frettolosamente per scontato, l´immediata liberazione dell´Invincibile, Augusto Pinochet. La prole menava pugni sulle schiene straniere. Ma fuggiti i cameramen e arretrati i giornalisti, la carica perse slancio. E ora, che fare? Ci si attruppò in attesa di un capo. Cosa distruggere, dove attaccare, chi punire? Disorientamento. Gli ottimisti assicuravano: ”L´Esercito scenderà nelle strade e tutti si cagheranno sotto”. Invece l´esercito non scese nelle strade, né quel giorno né in seguito. Dopo alcune settimane Pinochet tornò a Santiago, libero e impunito: ma il suo Cile era ormai agli sgoccioli. Di fatto era finito quel pomeriggio nella Fondazione Pinochet, con lo spettacolo indimenticabile del pinochetismo che perdeva la maschera della rispettabilità e del decoro. E che stordimento, tra quei militari che ancora mezz´ora prima si sentivano i padroni del Cile, tra quelle signore che cantavano felici: ”Con le ossa di Allende faremo un grande ponte, e lo attraverserà Pinochet”. L´esercito ”mai vinto”, come vanta il suo motto, aveva subito una disfatta mondiale. Il Comandante Benemerito, il Nonno della nazione, il ”Libertador immortale” celebrato dai cartelloni e ritratto in questa sala come un cavaliere medievale con un unicorno sullo sfondo, era un accusato di genocidio. La farsa era finita. E con quella finiva una transizione che era stata una transazione, un negoziato di basso profilo con le regole imposte dalla casta militare. Laggiù, in centro, un´allegria da giorno della liberazione. [...]» (Guido Rampoldi, la Repubblica 13/12/2006) • «È stato una delle figure simbolo del vecchio secolo, un simbolo d’odio e di paura in un tempo nel quale i processi della Storia tardavano a trovare spazio e legittimazione dietro la cupa trincea della logica dei blocchi. Churchill amava dire che ”la storia comunque non dimentica la memoria”, Pinochet ha compiuto atti e scelte che però la memoria - quella istituzionale - a lungo ha preferito rimuovere, per tentare di consegnare la storia del Cile almeno a una speranza di futuro. Sono calcoli miseri di vita, quando il nome dei morti quasi non può essere pronunciato e la loro tomba collettiva di 3.000 nomi, uno dietro l’altro, uno dopo l’altro, è una grande lastra di marmo grigio, vicino all’entrata del cimitero monumentale di Santiago; però sono calcoli che sempre il passaggio da una dittatura alla democrazia giustifica con il dovere di superare il passato e con il desiderio della rinascita. Oggi i conti del passato sono comunque chiusi, ma non perché ieri sia finita la vita di Augusto Ullarte Pinochet, dittatore del Cile dall’11 settembre del ’73 all’8 dicembre dell’89; sono chiusi perché il tempo ha ormai dettato le sue sentenze sul ruolo di questo vecchio che negli ultimi anni fingeva smemoratezze e incoerenze per sottrarsi al giudizio dei tribunali. Le carte ”declassificate” della Cia, le dichiarazioni di Kissinger, i traffici sporchi venuti alle luce nel giro della banche internazionali, hanno alla fine disegnato il vero profilo del dittatore, immiserendo il suo presunto ruolo, da difensore della “civiltà dell’Occidente” di fronte alla minaccia del comunismo, a una spregevole operazione di ambizioni e di potere personale, con le mani alla fine infangate di dollari sporchi e di conti bancari segreti. È morto male, Pinochet, è morto sepolto dal disprezzo di coloro cui aveva dato torture, violenza, morte clandestina, senza che il rimpianto - che comunque c’è - di quella parte del Cile che lo aveva osannato per il suo golpe, ed è la corporazione militare, i profittatori dell’arraffo, le damazze d’una borghesia compradora favorita da una spregiudicata repressione del mercato del lavoro, senza che questo rimpianto possa riequilibrare il peso d’una colpa che lo schiaccia, nuda da ripari ideologici. Sotto il macigno di quell’assalto alla Moneda fu posta fine illegittima non soltanto a un modello politico nazionale, l’esperimento dell’Unidad Popular, confuso, velleitario, e tuttavia di respiro incisivo sulle dinamiche sociali che allora investivano duramente l’America latina, ma i suoi riflessi si spinsero drammaticamente anche sul corso del dibattito tra liberalismo e socialismo in molti paesi europei, quando apparve evidente che per governare non basta la semplice maggioranza dei voti e il golpe diventò la spinta difensiva verso un ”compromesso storico” che Berlinguer scelse condito, appunto, di salsa cilena. Un giorno, in una delle sue interviste molto rare perché lui amava proteggersi dal rischio di domande pericolose, fu chiesto al dittatore perché avesse sempre portato quei suoi occhiali scuri, lugubri, da faina notturna; rispose con un’improvvisa sincerità: “Li porto perché così nessuno può leggere negli occhi quello che io penso veramente”. Pinochet è stato un uomo di menzogne e falsità, “un curioso fenomeno di travestitismo morale” come l’ha definito Luis Sepúlveda. Ha sempre mentito, da capitano nella tragica landa di Pisagua, da colonnello nella miniera infelice di El Salvador, da generale nei giorni di preparazione del golpe quando Allende gli chiese fedeltà e lui giurò rispetto e obbedienza costituzionale nel nome di quel Cristo che poi presunse d’aver difeso contro ”il comunismo ateo”. Ma la politica non s’impressiona troppo di queste debolezze, il realismo del potere rende accettabili manovre e comportamenti che l’etica delle idee disprezza con fastidio, talvolta con orrore; e però quell’ampia parte della società cilena che appoggiò il golpe, che lo benedisse, che lo accompagnò perfino quando la durezza della repressione e lo spreco di giustizia erano ormai davanti agli occhi del mondo, quella quasi metà di un paese (nel plebiscito dell’89, Pinochet ebbe ancora il 46 per cento dei voti) sta sullo stesso banco degl’imputati dove la storia ha alla fine schiacciato il vecchio generale. Quegli anni amari che stavano tra il decennio dei Sessanta e poi la caduta del Muro fecero dell’America Latina il laboratorio di molti esperimenti politici, dove una ribellione che nei mille ”focos revolucionarios” s’illudeva di cambiare la storia degli uomini senza futuro s’intrecciava con i progetti brezneviani d’una rottura dell’assedio americano; in Bolivia prima, ma poi in Uruguay, nel Cile, in Argentina, le lotte sociali nazionali (spesso tragedie amare di militanza armata e di ribellismo palingenetico) diventarono strumento d’uno scontro che cancellava la frontiera d’ogni singolo paese e assumeva connotazioni d’una battaglia politica globale. I militari - il loro ruolo storico di strumento docile del vecchio potere coloniale, il loro ruolo nuovo di baluardo dell’Occidente secondo la dottrina e le tecniche apprese alla Scuola delle Americhe, a Panama - i militari furono la struttura di contenimento di queste tensioni, inchiodando sul terreno armato quello che doveva essere lo spazio della lotta politica. Pinochet e la sua storia stanno all’interno di quell’orizzonte, l’Operazione Condor ne disegnava le strategie continentali in obbedienza alla linea che Washington dettava. E i dollari della Cia, a milioni, e la benedizione di Nixon (’Facciamo in modo che quel figlio di puttana non contagi l’intero continente”, disse il Presidente, e il contagio era Unidad Popular e il figlio di puttana era Salvador Allende), indicavano il metodo e il progetto con cui ciascun governo militare doveva riassumere il controllo delle derive politiche. Il golpe di Santiago fu lanciato all’alba d’un giorno di settembre, umido di pioggia e dei venti freddi che montavano dall’Antartide. Allende lo apprese da una telefonata, svegliato bruscamente e già in viaggio febbrile verso la Moneda; e subito chiese solidarietà a Pinochet, comandante delle forze armate. Il suo ”fedele” generale gli rispose offrendogli un salvacondotto e un aereo per lasciare il paese; poi aggiunse, pensando che il collegamento fosse già interrotto: ”Che il bastardo vada a prendersi quel suo fottuto aereo, ci penseremo poi noi a buttarlo giù a cannonate”. Il bastardo morì dentro la Moneda, forse suicida, forse consapevole delle troppe illusioni scatenate con un progetto politico che pretendeva d’ignorare come lui fosse stato eletto soltanto dal 37 per cento dei cileni. È storia lontana. Pinochet è sopravvissuto al suo tempo, ma - come diceva Churchill - la memoria della storia non si cancella. Patricio Aylwin, che fu il primo presidente democratico del Cile dopo la dittatura, pianse pronunciando il discorso dell’investitura; pianse per gli errori della Dc cilena, pianse per quei 3000 morti senza pace. Pinochet, lui, stava in silenzio, abbottonato dentro la sua uniforme. Da dittatore era diventato senatore, e non aveva rimorsi. È la storia d’una tormentata transizione alla democrazia, che forse si va chiudendo con l’elezione della signora Bachelet, torturata e violata dagli uomini di Pinochet e però oggi Presidente eletto del Cile» (Mimmo Candito, ”La Stampa” 11/12/2006).